Scheda film
Regia, Immagine e Composizione: Fabrizio Ferraro
Testo: ispirato da “Notti bianche” di F. Dostoevskij; cartelli tratti da alcuni versi di Georg Trakl
Collaborazione alla realizzazione: Felice D’Agostino
Suono: Klothé
Italia, 2013 – Film d’arte – Durata: 90′ – B/N
Cast: Marco Teti, Caterina Gueli Rojo
Uscita: 14 febbraio 2013
Distribuzione: Boudu
Sale: 20
Le parole mute
Per giudicare un film come Quattro notti di uno straniero si deve andare oltre la recensione e puntare a qualcosa che sia il più vicino possibile a un’analisi d’impronta saggistica. Questo perché è la natura stessa dell’opera diretta da Fabrizio Ferraro a richiederlo, inconsueta e “aliena” nel panorama odierno, addirittura preistorica (non nell’accezione negativa del termine) se si pensa alla maniera in cui il cinema viene prodotto da moltissimi decenni a questa parte, per non dire kamikaze per la scelta del regista di averla solo immaginata. Eppure eccola qua, miracolosamente proiettata davanti ai nostri occhi. Seconda parte di un dittico sul contatto, inaugurato nel 2011 con Penultimo Paesaggio, l’ultima creatura cinematografica di Ferraro è un qualcosa che andrebbe studiato prima che analizzato, semplice e allo stesso tempo complesso, senza alcun dubbio non particolarmente accessibile a un pubblico medio e affascinante per quello degli addetti ai lavori, che hanno nel proprio bagaglio gli strumenti per poterlo decodificare nella sua interezza. Questo non significa che non può essere visto da chiunque, ma a quel chiunque è richiesto uno sforzo non indifferente. Resta il fatto che si tratta di un film che non può essere collocato con esattezza nello scacchiere dei generi, iscritto in questo o quell’altro filone, causando un vero e proprio cortocircuito che rende la sua diffusione alquanto difficoltosa.
Detto ciò, nonostante la decisione di avvalersi di un approccio di tipo saggistico, non scomoderemo teorie o teorici del cinema, se non il caro vecchio Astruc con il principio della “Caméra stylo” che tanto ha dato alla Politica degli Autori. Attraverso di esso il critico e cineasta francese rivendicava la stessa libertà espressiva concessa all’autore letterario, affermando anche che il regista deve e può usare la macchina da presa come un pittore usa i pennelli sulla tela. Ferraro fa sua la lezione e la mette in pratica per portare sullo schermo il suo personale adattamento de “Le notti bianche” (1848) di Fjodor Michajlovic Dostoevskij, filmato in precedenza da Roscial e Stroeva, Dreville, Cottafavi, Bresson e Visconti. Come molti di loro sposta l’azione da San Pietroburgo, città nella quale la storia originariamente si svolge, da un’altra parte, per la cronaca a Parigi come Bresson nel 1971 in Quattro notti di un sognatore (Visconti la porta invece in quel di Livorno per il suo film del 1957).
Il film si scompone in quattro movimenti, che corrispondono ad altrettanti notti in cui i due incerti amanti, protagonisti di questo viaggio (meta)fisico, vagano, si inseguono, si spiano e si lasciano sullo sfondo di una Parigi immersa in un bianco e nero dove si scontra la luce accecante e il buio impenetrabile. La videocamera di Ferraro cattura questo vagabondare di due anime quasi spettrali nella topografia di una metropoli, imprigionando i personaggi e la città nelle inquadrature, come Ruttman & Co. facevano nei loro documentari lirici. La geometria e la composizione del quadro, creano il senso, così da prendere il sopravvento su tutto. Ne ricava una natura viva raffreddata di alta tenuta stilistica e di bassa temperatura emotiva, resa mediante un rarefatto e rigoroso lavoro formale. Qui duellano gli opposti, in una battaglia di novanta minuti che non ha vincitori né vinti, dove lunghi e chirurgici movimenti di steadicam a seguire (bellissimo quello nel porto fluviale) cedono il testimone a estenuanti piani fissi. Il fattore cronometrico diventa determinante, con inquadrature di una manciata di secondi che possono intromettersi furtivamente tra un interminabile piano sequenza e l’altro, mettendo a dura prova la capacità retinica di uno spettatore abituato oggigiorno a un ritmo sempre più veloce e standardizzato.
Assistiamo così a un modo di fare la Settima Arte che si riappropria del dispositivo ottico, che è l’essenza stessa del cinema e del motivo per cui questo è stato creato, ossia tradurre in immagine il flusso di pensieri e parole partorite da un autore. Di conseguenza, la narrazione raggiunge il grado zero perché privata di un testo, lasciando all’immagine e a ciò che accade al suo interno il compito di raccontare una o più storie. È un approccio che non ci appartiene più, che è stato abbandonato negli archivi per fare spazio a una scrittura filmica ottenuta attraverso l’incontro tra ciò che si vede, ciò che si sente e ciò che è stato scritto a tavolino, che non lascia spazio all’imponderabile e all’inatteso. Ma a conti fatti è il testo a dire ciò che va detto. Lo scopo di Ferraro è quello di restituire all’immagine “pura” ed epurata il ruolo che le spetta, costruendo l’architettura narrativa del film unicamente attraverso la cinetica, l’inquadratura mobile e statica, il moto dei corpi e il loro agire nei quadri che si avvicendano. Il tutto arricchito dalla parola che ridiventa suono e dalla musica che ne segue gli sviluppi.
Il pericolo maggiore è che il pubblico invece che essere calamitato dallo schermo, venga al contrario respinto dallo stesso, perché al cospetto di un’opera estremamente teorica come questa, nobile per l’intento ri-educativo e da apprezzare per il coraggio dimostrato nell’averla concepita e generata, si possa sentire in qualche modo schiacciato e messo nelle condizioni di non comprenderne appieno il significato, per quanto profondo e “alto” esso sia. Tuttavia, deve essere il pubblico a decidere se accettarlo o rifiutarlo e soprattutto deve essere messo nelle condizioni di poterlo fare; cosa che non spetta al mercato, che può assecondare i gusti degli spettatori e non stabilire a priori cosa sia giusto oppure no mostrargli. Per questo è importante che una pellicola come quella di Fabrizio Ferraro sia riuscita, seppur con mille difficoltà, ad approdare sul grande schermo grazie alla lungimiranza della Boudu che, oltre ad averla prodotta in collaborazione con Fuori Orario (che lo manderà prossimamente in onda su Rai Tre), ha deciso anche di distribuirla in una serie di sale selezionate in giro per lo stivale.
RARO perché… è un film (?) molto difficile.
Voto: * * *
Francesco Del Grosso
Alcuni materiali del film: