Scheda film

Regia: Steve McQueen
Soggetto e Sceneggiatura: Enda Walsh, Steve McQueen
Fotografia: Sean Bobbitt
Montaggio: Joe Walker
Scenografie: Tom McCullagh
Costumi: Anushia Nieradzik
Musiche: Leo Abrahams, David Holmes
G.B,/Irlanda, 2008 – Drammatico/Biografico – Durata: 96′
Cast: Stuart Graham, Laine Megaw, Brian Milligan, Liam McMahon, Karen Hassan, Michael Fassbender, Frank McCusker
Uscita: 27 aprile 2012
Distribuzione: BIM

 Dies IRA

È il 1981. In uno dei vari “H-Blocks”, i blocchi H, del carcere di Long Kesh, Irlanda del Nord, tristemente noto come “The maze”, il labirinto, i detenuti repubblicani stanno conducendo da lungo tempo la protesta delle coperte, “Blanket protest”, cui ora hanno affiancato quella dello sporco “No-wash” o “Dirty protest”, al fine di riottenere lo status di prigionieri politici, che migliorerebbe di molto la loro condizione. Ma l’inferno non risiede solo all’interno di quelle mura di dolore e terrore o, almeno non è fermo lì dentro, ma fa la spola con l’esterno, nella figura ad esempio di Raymond Lohan (Stuart Graham), una guardia carceraria che ci viene presentata fin da subito, nella sua casa, per poi introdurci insieme a lui, come un Caronte, nel terribile penitenziario. Sull’altra parte della barricata sta invece Davey Gillen (Brian Milligan), un giovane carcerato appena arrivato, insieme al compagno di cella Gerry Campbell (Liam McMahon). Presto riceveranno la compagnia di Bobby Sands (Michael Fassbender), che deciderà di intraprendere il suo secondo sciopero della fame, arrivando a morire di inedia, tra estenuanti ed atroci sofferenze il 5 maggio di quell’anno. Il suo sacrificio venne seguito da altri nove prigionieri nei mesi successivi e diede un’immediata spinta mediatica, in un’epoca in cui l’informazione era ancora relegata a tre soli e controllabilissimi mezzi, all’IRA ed alla sua causa.
Dopo quasi quattro anni dalla sua presentazione a Cannes e dall’uscita in patria, l’esordio-capolavoro di Steve McQueen arriva finalmente anche nelle nostre sale grazie all’encomiabile, benché tardiva iniziativa della BIM. Concepito in tre atti, come una suite, mezzora di presentazione prima di far entrare in scena Sands, altrettanto per la sua presentazione e la decisione dello sciopero, ancora mezzora per descrivere la sua sofferta uscita di scena, Hunger è un vero colpo allo stomaco.
McQueen ci introduce ed accompagna in un vero inferno in terra, seminando il dolore su entrambi i fronti, insinuandolo nella routine delle vittime e dei carnefici, i quali ultimi a loro volta si trasformano in tutti i sensi di nuovo in martiri, in una spirale di atrocità, escrementizia come quella che un detenuto ha dipinto su un muro della prigione, imbrattandolo con le proprie feci.
Diluite dal piscio urinato in cella dai carcerati per non andare in bagno ed evitare di ricevere ulteriori botte dalle guardie e colorate dalla loro stessa merda sparsa sulle pareti per lo stesso motivo, le manganellate inferte ai prigionieri rivoltosi fanno davvero male sulla pelle e nell’animo dello spettatore, ancor più di quelle recentemente sparate sugli schermi e relative a fatti del nostro paese accaduti un paio di lustri fa.
La magistrale e virtuosistica performance di Fassbender, che, grazie all’abile messa in scena del regista esordiente, non fa da sola la grandezza del film, anche se di certo potrebbe, ha il suo punto più alto nel lunghissimo dialogo con padre Dominic Moran (un immenso Liam Cunningham), realizzato in gran parte in una sterminata inquadratura a figura intera, senza stacchi per circa un quarto d’ora, in cui fa il punto della situazione e pianifica il suo letale sciopero. Il resto, se non bastasse, lo fa McQueen, mostrando le iperrealistiche conseguenze dell’inedia, tra piaghe da decubito e deliri, prestando continua attenzione ad ogni piccolo dettaglio, firmando così un film sì doveroso, ma anche finalmente ben fatto. Così sul grande schermo passano le varie declinazioni della fame (l’”hunger” del titolo): quella letterale di cibo, ma anche di diritti umani, di giustizia, di progresso. Un classico.

Voto: * * * *

Paolo Dallimonti