Ha senso un remake?
Sono rari i casi in cui la carenza di idee trova riscatto nel rifacimento di un’opera cinematografica e il film di Bret Ratner parte gia’ in svantaggio, dovendo confrontarsi con il riuscito e disturbante “Manhunter – Frammenti di un omicidio” di Michael Mann. Ma “Red Dragon” sconta anche il paragone con i due illustri precedenti tratti dalla saga letteraria di Thomas Harris: il folgorante e morboso “Il silenzio degli innocenti” e il meno riuscito, ma comunque interessante, “Hannibal”. L’idea di un prequel tirato a lucido con cast altisonante sembra quindi basata esclusivamente sul tentativo di battere cassa, contando sul fatto che il film di Mann lo hanno visto in pochi e che l’infido Hannibal Lecter, grazie al carisma di Anthony Hopkins, e’ diventato un’icona di malvagita’ in grado di attirare spettatori in ogni parte del mondo. Sta di fatto che “Red Dragon” delude le gia’ poche aspettative. Funziona come intrattenimento (c’e’ pur sempre un maniaco imprevedibile, un poliziotto sulle sue tracce, colpi di scena a ripetizione) ma non aggiunge nulla di sostanziale ai due precedenti (ma cronologicamente successivi) episodi. In particolare stona il taglio spettacolare con cui la maggior parte delle situazioni sono risolte: il maniaco non vive in una casa, ma in una mega-villa, la cella di Hannibal non e’ in una normale prigione, ma sembra la stanza di un castello, i colloqui in carcere non avvengono in un ambiente qualsiasi, ma in una specie di enorme ring in cui Hannibal viene addirittura tenuto al guinzaglio. Piu’ che in un carcere di massima sicurezza sembra di essere in un albergo a quattro stelle, tra l’altro poco sicuro considerando che e’ possibile intrattenere pericolosa corrispondenza e pure gabbare tutti telefonando a chicchessia. Ma sono tante le scelte troppo facili con cui il film perde via via mordente, dalle solite intuizioni geniali con cui si arriva all’identificazione del maniaco, fino al maniaco stesso, un muscoloso e pure cazzuto Ralph Fiennes, tutto tatuaggi e lucidita’ mentale. Gli interpreti sono convincenti, da Emily Watson perfetta come cieca ignara del pericolo, a Philip Seymour Hoffman, ormai abbonato ai ruoli sgradevoli. Edward Norton si conferma attore versatile, ma e’ il suo personaggio, ridotto a supereroe solo acciaccato e mai davvero vulnerabile, ad essere troppo semplificato.
In “Manhunter” mettersi nella testa dell’assassino porta il protagonista, e lo spettatore, a varcare il confine molto labile dei limiti delle pulsioni umane, mentre in “Red Dragon” il grigiore di Edward Norton e il suo ritiro nel mare della Florida, sembrano piu’ che altro un riposo del guerriero in attesa di riscatto. Quanto a Anthony Hopkins, il suo terzo Hannibal conserva garbo e crudelta’, ma perde un po’ in fascino, soprattutto per il ripetersi di un cliche’ e per oggettivi limiti anagrafici. In generale si puo’ riscontrare che tutti i personaggi sono avvolti nello stereotipo, tutte le location sono suggestive, tutte le frasi sono ad effetto. L’anima del film sembra racchiusa nella domanda “Cosa puo’ piacere al pubblico?” non considerando che la curiosita’ nello spettatore nasce soprattutto dall’immedesimazione e non solo dall’ammirazione di un mondo esclusivamente cinematografico. Di conseguenza, nonostante il film si segua volentieri, manca una tensione capace di incollare allo schermo e, soprattutto, un punto di vista personale in grado di distinguere il film dai tanti thriller che circolano al cinema.
Luca Baroncini