Regia: Gabriele Muccino
Sceneggiatura: Gabriele Muccino, Heidrun Schleef
Fotografia: Marcello Montarsi
Musiche: Paolo Buonvino
Scenografia: Paola Bizzarri
Costumi: Gemma Mascagni
Montaggio: Claudio Di Mauro
Interpreti: Laura Morante, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Muccino, Nicoletta Romanoff, Monica Bellucci
Recensione n.1
Ritroviamo Giulia e Carlo qualche anno dopo il matrimonio, profondamente cambiati. I sogni abbandonati nel cassetto, sommersi dal grigiore del quotidiano di una famiglia borghese, soffocati dal disamore e dall’indifferenza che caratterizzano spesso i rapporti familiari. Valentina e Paolo, i figli, tentano di sottrarsi alla mediocrità dell’esistenza e ottenere quello che desiderano veramente: l’una lavorare in televisione, l’altro essere accettato dal gruppo di amici adolescenti. In crisi di coppia, Carlo incontra una sua ex e la fiamma si riaccende. Avrà il coraggio di cambiare vita?
Il regista ci presenta un film amaro e a tratti disperato, cinico e che non lascia spazio alla speranza. Per assurdo è proprio la figlia adolescente, pronta ad assecondare i desideri sessuali di personaggi televisivi anche di secondo piano, a risaltare in positivo. È infatti l’unica ad avere un sogno e a perseguirlo, pur con qualche compromesso. Certo è un sogno di plastica, vuoto e fatuo come la televisione ai nostri giorni. È un sogno che nulla ha a che spartire con l’idealità. Ma è e resta comunque un sogno.
Muccino è molto abile nel rendere con una regia nervosa e a scatti il disagio psicologico dei protagonisti, il livello di conflittualità insostenibile che caratterizza i loro rapporti. Laura Morante è sopra le righe, la sua interpretazione è decisamente troppo urlata. Bentivoglio bene interpreta l’inconsistenza e l’ambiguità di un uomo che preferisce essere scelto dalla vita invece che scegliere la vita che desidera. Eppure, nonostante il prodotto sia ben confezionato e sorretto da un’abile operazione di marketing, non convince. Non è altro che un insieme di luoghi comuni sul matrimonio e la fine delle speranze, la televisione che omologa e il disagio giovanile. Si avverte l’insincerità e il freddo calcolo del regista, attento a catturare il consenso più ampio possibile. C’è professionismo ma manca l’anima.
Mariella Minna
Recensione n.2
C’è l’essere se stessi fuori. Un mondo dinamico, frenetico, senza un attimo di tregua, vivace, libero, vivo. E poi c’è il mondo delle statuine, statico, immobile, ingessato, frigido, morto. Così è rappresentato il modo in cui si vive fuori e dentro la famiglia. Sembra una gabbia, è una gabbia la famiglia. Il luogo dove si smarriscono le passioni originarie, dove si perde il contatto con la parte più vera di noi stessi, o quella che si crede tale. Dove ci sono responsabilità, pesantezze, grigiori. Ma a cui ci si aggancia. Quando le cose si mettono male. Quando c’è un trauma. E si sa che qualcuno c’è da qualche parte che è obbligato a intervenire. Perché i rapporti sono quelli, ci sono i doveri. I doveri che tarpano le ali, ma che servono da rete di sicurezza. Ci sono la libertà di essere se stessi e il bisogno di trovare un pavido riparo. Ci sono l’individuo e la famiglia. La libertà e il compromesso. La libertà e la vigliaccheria. La libertà e l’ipocrisia. La libertà e la piccolezza. E se fossimo soltanto così meschini da non sapere vivere o meritare la libertà, perché, magari, non c’è niente di vero da esprimere?
Un bel film quello di Muccino. Il ritmo è invidiabile. Il susseguirsi e il sovrapporsi delle immagini potrebbero vivere da soli. Quasi senza parole. Urlate o taciute che siano.
E sugli attori, una Laura Morante sopravvalutata, forse perché capace di pathos? Ma sempre quell’impercettibile grado oltre il dovuto. Che fa precipitare tutto. E del resto lì, accanto a lei, c’era Gabriele Lavia. Naturalissimo invece Fabrizio Benitivoglio, con uno sguardo che parla da solo. Bravissimo. Attore senza pensare di esserlo, dimenticandoselo, doveva forse soffrire di qualche amnesia in più anche la Morante. Bellissima e spavaldamente provocante Nicoletta Romanov, personaggio azzeccatissimo. Forse troppo di maniera, da cliché, il personaggio proposto al comunque efficace Enrico Silvestrin. Forse fuori di età il fratello di Muccino, ma gli si deve riconoscere una particolare spontaneità. Che è una forza innata.
Cinzia Bovio
Recensione n.3
Il successo cambia le persone, lo dicono tutti e, forse, un fondo di verita’ c’e’. Non tanto, pero’, chi il successo se lo gode, quanto chi il successo lo giudica. Succede infatti sempre piu’ spesso di sentire, a proposito di cantanti, registi, scrittori (dicia o in generale di chi gravita nel mondo artistico), frasi tipo “quando non lo conosceva nessuno faceva cose migliori, adesso i e’ sput anato per piacere a tutti”. Come se fosse necessario mettere una barriera tra se stessi, intelligenti, acuti e versatili, e la massa, ignorante, qualunquista e conformista. Sta di fatto che Gabriele Muccino, con il successo, inatteso ed enorme, de “L’ultimo bacio”, ha frenato gli entusiasmi di parte della critica piu’ “illuminata” che lo ha trovato cinematograficamente furbo, superficiale e borghese (quando pero’ Antonioni parlava del ceto medio-alto, tutti ad applaudire fino a spellarsi le mani senza pensare al proletariato!!!).
Critica alla “critica” a parte, in “Ricordati di me” Gabriele Muccino resta fedele alla sua idea di cinema, che prevede conflitti affettivi e generazionali espressi con grande energia e senso del ritmo. La storia mostra la progressiva e irreversibile disgregazione di un nucleo familiare in cui tutti i membr sono ossessionati da un’affermazione personale che passa esclusivamente attraverso un riconoscimento esterno. L’unica reale gratificazione puo’ avvenire da fuori, da un pubblico (che sia di spettatori, lettori o amici non importa) pronto a dare conferme. In questo quadro c’e’ poco spazio per gli affetti che assumono, anch’essi, una funzione prettamente strumentale. Lo sguardo del regista e’ cinico nei confronti della famiglia, luogo di ansie, frustrazioni e incomunicabilita’, ma i personaggi non sono a senso unico, come capita quando si vuole suffragare una tesi, e vengono mostrati nella loro contradditorieta’: chi tradisce (o vorrebbe farlo) rinfaccia i tradimenti, chi non ama sente di amare, chi e’ vuoto, o svuotato, pensa di avere tanto da dare. C’e’ piu’ cattiveria rispetto a “L’ultimo bacio” e i personaggi risultano meno tipizzati, meno simbolici. L’immedesimazione, infatti, non scatta tanto con le nevrosi al limite del patologico della famiglia protagonista, quanto con il contesto di indifferenza, pura forma e incapacita’ di comunicare in cui i personaggi si muovono.
Ben scritto, nonostante le forse troppe frasi ad effetto, il film trova i suoi punti di forza nella messa in scena, sempre accurata e credibile, e nella direzione degli attori. Si percepisce la ricerca di un andamento concita o che rispecchi il tormento e la frenesia dei personaggi. In questo senso la colonna sonora di Paolo Buonvino offre ottimi appigli e scandisce con efficacia il racconto. Quanto agli attori, tutti risultano in parte e ben diretti, anche chi appare solo per poche battute: Laura Morante e’ bravissima e si dona senza riserve nel ruolo, a rischio macchietta, della madre nevrotica, Fabrizio Bentivoglio ha le espressioni giuste per rendere l’ignavia e l’indolenza del suo personaggio, Silvio Muccino e’ un “Come te nessuno mai” tre anni dopo, stessa esuberanza di parole mangiate e idee confuse, l’esordiente Nicoletta Romanoff e’ a suo agio sia come ninfetta dalle aspettative di plastica che come figlia insofferente e menefreghista. Per una volta, poi, sembra (quasi) vera anche Monica Bellucci che dimostra, meno diva e piu’ donna, una verve e un calore inaspettati; tra l’altro, ma questo non dipende dall’attrice quanto dal personaggio, e’ l’unica capace di prendere una decisione e di portarla fino in fondo, affrontandone le difficolta’ e accantonando, per una volta, i benefici a breve termine del compromesso.
Il cinema di Muccino, piu’ che fotografare la realta’, rende tangibile un modo di sentire diffuso, attraverso una narrazione scorrevole capace di catturare quasi visceralmente lo spettatore. Unici nei, la fastidiosa voce fuori campo, per fortuna poco presente ma inopportuna e ridondante nel dare parola a stati d’animo gia’ comprensibili, e lo stratagemma di sceneggiatura dell’incidente. Pur nel suo utilizzo solo in apparenza conciliatore (e quindi atipico rispetto agli standard in cui dopo un incidente sono tutti piu’ buoni e il pubblico piange), risulta un modo un po’ banale per sbloccare il destino dei personaggi.
Luca Baroncini
Recensione n.4
Allo scorrere dei titoli di coda di “Ricordati di me”, la prima cosa che ci si ricorda, a dispetto del titolo, è il ritmo avvolgente, il frappè di musica e immagini, il viaggio fra le insoddisfazioni di una generazione e di una società. Insomma, ci ricordiamo de L’Ultimo Bacio. Questo per chiarire fin da subito come, sia nel bene che nel male, Muccino con questa opera non muova un passo in più del dovuto, non si evolva minimamente, non intenda per niente approfondire. Se L’Ultimo bacio rappresenta il perfezionamento delle capacità narrative mostrate in Come te nessuno mai, qui non si può parlare d’altro che di “bis”. Peccato, perché Muccino ha dimostrato di saper far viaggiare i fotogrammi anche a livello mentale (vedi la parte finale di Come te nessuno mai, appunto). Le idee che il regista ha in testa sembrano invece ormai chiare e precise, il suo stile è ben oliato e non ha bisogno di rifiniture. Del resto, perché sperimentare se il pubblico dimostra di apprezzare? E allora, eccoci alle prese con la famiglia di Carlo e Giovanna, con qualche anno e qualche figlio di più. Tema di questa lezione: il bisogno di essere “qualcuno”, per non scomparire nei meandri di una società che tutto inghiotte, svuotandoti di significato. Ritorna la trama intrecciata stile “Magnolia”, spogliata, come d’abitudine, del ricercato equilibrio e caricata di pathos; tornano i tradimenti, magnifica trappola in agguato dietro le nostre insicurezze; tornano, perché no, i grandi attori (se ne L’Ultimo Bacio la Mezzogiorno ci deliziava nelle scene isteriche, qui è la Morante a far vibrare i nostri sensi con la sua interpretazione ansiogena); tornano i ricercati e bellissimi colori della fotografia; tornano un sacco di cose insomma, perché a cambiare sono solo le pedine. Muccino, vuole farci conoscere la natura di questa società mostrandoci tutte le sue facce, osservandolo da punti di vista differenti. Ogni faccia, un film. Scelta didascalica, anche condivisibile: ma se nel frattempo si prodigasse anche nell’esplorare il mezzo che possiede, senza adagiarsi su ormai ripetitivi movimenti di macchina, dialoghi dei quali conosciamo a memoria i ritmi e musiche che continuano a rimanere incollate sullo sfondo, forse non saremmo qui a parlare con un po’ di amaro in bocca di una fotocopia de L’Ultimo bacio. Lasciamo fare agli americani questo genere di cose: a loro importa esportare un modo di vedere e vivere il mondo; da parte nostra sarebbe forse più gratificante cercare di esplorarlo. E’ questo che manca al nostro Muccino in questa prova, la voglia di capire: lui ha già capito tutto, non deve far altro che insegnarcelo.
C’è un’ultima cosa che si ricorda al termine del film e che si fa fatica a dimenticare: la consueta, sconvolgente sensualità di Monica Bellocci. Rimane il candore del suo viso, i gesti felpati e leggeri, la delicatezza che imprime ad ogni personaggio interpretato. I sensi e la mente volano al di là delle nuvole.
Francesco Rivelli
La colonna sonora ufficiale: http://www.click2music.it/pop.asp?url=com_st.asp?ID_comunicato=132 target=_blank
Recensione n.5
Ricordati di me narra la vicenda di una famiglia italiana. La storia di Carlo e Giulia coppia di mezz’età che non ricorda più il perché del loro matrimonio. Ambedue hanno abbandonato da tempo i propri sogni. Giulia voleva essere un’attrice, ma ha dato la sua vita alla famiglia, Carlo, uno scrittore, ma ora ha un lavoro che odia. La figlia minore, Valentina, vuole essere famosa ad ogni costo ed è attratta dallo sfavillante mondo della televisione. Paolo, il primogenito, è insicuro e non si trova a proprio agio in questo mondo così vuoto. Fra occasioni perdute, tradimenti, silenzi coperti dalla tv perennemente accesa, assistiamo allo svelarsi del piccolo mondo d’inganni e pensieri nascosti che tengono unita la famiglia…
Con curiosità, impazienza, era atteso il nuovo lungometraggio di Gabriele Muccino, dopo lo straordinario successo colto dall’Ultimo Bacio. Muccino ci riprova e rilancia, alzando la posta. Questa volta la sua pellicola è intergenerazionale. Sembra voler riprendere la vita (20 anni dopo) dei protagonisti dell’ultimo bacio. Le delusioni e le difficoltà della vita in famiglia hanno annullato ogni emozione, ogni sogno degno di esser vissuto. Carlo e Giulia hanno donato la propria vita al lavoro e alla famiglia scordandosi di viverla. Cercano di recuperare il tempo perduto ma ormai appaiono solo patetici. I figli della coppia sono molto diversi fra loro. Valentina è l’emblema della generazione dell’apparenza. Le letterine, le veline televisive, sono i modelli da emulare. L’unica preoccupazione sembra essere quella di non seguire il fallimento apatico dei propri genitori.
Il sogno generato dal luccicante mondo della televisione, con la strada in discesa verso il successo riconosciuto dagli altri, giustifica ogni sacrificio. Ogni bassezza è lecita, la prostituzione morale e fisica sembra essere la tassa giusta, necessaria. Paolo, certamente il più sensibile, vuole raggiungere la maturità, contando qualcosa per gli amici, per la famiglia, per la ragazza che ama. Vuole dimostrare di esistere, raggiungere al più presto il mondo degli adulti senza assomigliare a nessun modello.
Ognuno ha un bisogno disperato di valere di più per gli altri e per se stesso.
Muccino non solo allarga l’orizzonte generazionale, ma espande anche la trattazione sociologica e sociale. Il mondo fatuo, superficiale, ultra competitivo della televisione, che ha invaso le nostre case, è lo specchio della società contemporanea. Una società che banalizza i sogni, i desideri, lasciando spazio ad un’immoralità preoccupante. Anche la politica sfiora la sinossi del lungometraggio, con pesanti riferimenti alle nuove forze partitiche dell’attualità, figlie dello stesso contesto ‘culturale’. Ricordati di me è un grosso passo in avanti del regista. Personalmente non ho apprezzato l’ultimo bacio, davvero troppo ruffiano, superficiale, schematico, ma attendevo con curiosità la nuova pellicola perché sicuramente il talento registico era evidente. In ricordati di me si possono rintracciare numerosi difetti. Un’insistenza eccessiva nella storia di Valentina, nella sua scalata al mondo televisivo. Una stonatura nel personaggio di Paolo. Il regista in un ritratto generale così cinico e crudele, sfuoca e stereotipa l’unica figura positiva, rendendola davvero banale. I dialoghi, figli della quotidianità, sono troppo spesso esemplificativi, inutilmente rafforzativi e abusano della voce off (American beauty?). Ho sentito storcere il naso a più di un critico per la superficialità contenutistica, per la moralizzante e incoerente filosofia alle spalle del progetto, per il taglio psicologico, da salotto televisivo, dei protagonisti. Sicuramente sono critiche giuste, ma non tengono nella dovuta considerazione due fatti importanti: l’abilità espressiva dimostrata nel linguaggio per immagini e le difficoltà intrinseche nel raccontare l’attualità. La maturità registica di Muccino è evidente. Il suo linguaggio cinematografico è davvero sciolto e consapevole. Usa abbondantemente la steadycam. il montaggio parallelo e i piani sequenza. Padroneggia perfettamente questi mezzi espressivi, sviluppa nella pellicola un ritmo nervoso, sconnesso, frenetico, ansiogeno, abilmente instabile. La camera a mano è usata con cognizione di causa. Un altro punto importante a favore del film è la presa di petto dell’attualità. Il cinema di Muccino è figlio di questi tempi superficiali e vuoti ma sembra essere, nel medesimo tempo, il perfetto specchio deformante di questa realtà. E’ un cinema troppo vicino al presente, spesso confonde chi lo guarda. Racconta banalmente il banale dell’attuale, ma forse proprio così lo descrive al meglio. Appare come un figlio degenere del tubo catodico, usa le stesse armi (proverbiali le apparizioni televisive, da spot, del regista) con intenti opposti. La parte più snob, intellettuale, della critica cinematografica italiana ha bollato Muccino per sempre. Io penso che la sua ruffianeria contagiosa, la capacità di comunicare indistintamente ad ogni target di pubblico, la crescente presa di coscienza della propria abilità formale, unita all’abilità di marketing della produzione (il solito Procacci), è la migliore credenziale per la credibilità, industriale, del cinema italiano del presente. Aspettiamo con impazienza il prossimo lungometraggio.
Paolo Bronzetti
Recensione n.6
Dopo i milioni accumulati con lo straordinario successo dell’Ultimo Bacio, Muccino ritorna sugli schermi in pompa magna con questo “Ricordati di Me”, sorretto da una campagna pubblicitaria assai prepotente e da dibattiti scatenati ad hoc a proposito dello “scottante” problema della presunta immoralità di succinte e arriviste veline, nuove icone del porno-soft. Il film del giovane regista si propone di rappresentare la crisi di una famiglia romana tipo, spaccata da problematiche di cui si intuisce la natura sociologica, costruendo un classico itinerario narrativo ad anello che va dall’iniziale situazione di quiete apparente alla quiete apparentemente ristabilita del finale, passando per la parossistica turbolenza centrale. Su questo impianto narrativo Muccino innesta il suo rigurgito moralista contro i falsi simulacri televisivi e la superficialità della nostra società frenetica e mediatica, pasticciando alquanto, divertendo meno, e dando l’impressione di cadere proprio nell’atteggiamento che si sforza di mettere alla gogna: la superficialità. Innanzi tutto la frettolosa e un po’ sgrammaticata messinscena delle turbe famigliari dei quattro protagonisti manca di solide motivazioni: perché realmente, secondo il nostro autore, scoppia la bufera?Perché la crisi? Apparentemente, durante il film, nessuna risposta e, ahinoi, nessuna domanda, solo dati di fatto. Accanto a ciò ecco la questione su cui Muccino è più sarcastico, quello delle veline, delle vallette e delle showgirl che sculettano nei palinsesti televisivi, di cui vediamo un ritratto tanto spietato quanto superficiale. Perché, ci si chiede infatti, prende corpo, nasce e si radica nella mente di tante giovinette di cui la Romanoff sarebbe il campione questa singolare ambizione? La risposta è totalmente assente, perché anche in questo caso è prima ancora assente la domanda. Nessuna ipotesi sociologica, anche elementare, prende corpo, nessuna spiegazione. E questo vale anche per le altre storie di cui sono protagonisti gli altri membri della famiglia, inserite nel quadro della parcellizzazione del nucleo famigliare, senza profondità, senza intensità, senza domande e senza risposte. Sembrano confezionate per piacere proprio a quel pubblico televisivo un po’ più indulgente e in grado di accontentarsi che Muccino sembra indirettamente voler colpire. Questa superficialità di fondo trasmette, come detto, una sensazione di frettolosità nel racconto, di cui risente inevitabilmente pure la recitazione, complessivamente discontinua e disomogenea anche in attori di grande spessore, come Bentivoglio e la Morante, a volte inspiegabilmente urlanti, a volte incomprensibilmente biascicanti, complessivamente poco amabili. Gli altri fanno da contorno mediocre, dalla Bellucci, che si vede ulteriormente penalizzata (oltre quindi all’handicap di doti da attrice non proprio esaltanti) da un personaggio intermittente, tralasciato, che improvvisamente scompare dalla narrazione, non solo fisicamente ma, cosa assai più grave, come presenza funzionale. In una parte minore appare Pietro Taricone, il muscoloso energumeno della prima edizione del Grande Fratello, salito alla ribalta proprio grazie ad uno show televisivo da puri esibizionisti. Tutto ciò potrebbe essere fortemente ironico, oppure assai incoerente. Inoltre anche il personaggio di Taricone sparisce improvvisamente senza lasciare traccia, e lasciandoci con grossi interrogativi sulla sua funzione narrativa. Altro personaggio incompiuto è il giovane Paolo interpretato da Silvio Muccino, fratello del regista, che non riesce ad essere un efficace e realistico ritratto giovanile, imbrigliato in un eccesso di tematiche abbozzate e mai messe a fuoco. A questi limiti strutturali aggiungiamo, nella nostra personale lettura, altre “spiacevolezze” stilistiche, come la fastidiosa voce off, che spiega a volte il superfluo e a volte ciò che sarebbe stato meglio evocare, come il mediocre e televisivo inizio, stilisticamente piatto e volte caratterizzato da stacchi di montaggio poco giustificabili e come la prezzemolina camera a mano e i copiosi piani sequenza, abbondanti e spesso incomprensibili, forse abusati, chissà, perché fanno molto “cinema d’autore”. In conclusione ci torna alla mente una delle molte interviste rilasciate da Cuccino nell’ultimo periodo e pubblicata da Sette, format settimanale del Corriere della Sera, in cui il Nostro attacca senza pudore il cinema italiano degli ultimi vent’anni e si incorona erede di una tradizione popolare (!!) facente capo a Fellini, Olmi, Bertolucci (!!!!!) … Siamo in una botte di ferro…
Simone Spoladori
Recensione n.7
Torna Gabriele Muccino. Torna dopo il successo travolgente de “L’ultimo bacio”, film che lo ha lanciato come uno tra i più grandi giovani registi italiani. Torna la famiglia in primo piano, stavolta affrontata nella sua interezza, in uno stato di maturità sia per i genitori che per i figli.
I Ristuccia sono una famiglia che sta perdendo la propria identità, che vuole in tutti i modi cercare un proprio spazio, ritagliarlo all’interno di una società diventata troppo prevedibile. Carlo, il padre, ha un lavoro in cui non si riconosce e un libro che dai tempi del liceo non ha ancora finito. Giulia, la madre, è un’insegnante che per dedicarsi alla famiglia a dovuto rinunciare alla sua passione, il teatro. La loro relazione si trascina stancamente attraverso un percorso che pare prestabilito, fatto di gesti e parole che si ripetono immutati ogni giorno. Intorno a loro si muovono i due figli: Paolo è convinto di non valere molto, si sente un perdente in una mondo che non riesce ancora bene a codificare, e si ritrova perciò disorientato, mediocre e solo. Valentina ha un solo sogno: entrare a far parte di quel mondo che tanto la affascina: la televisione, con tutto ciò che le ruota intorno.
Ognuno dei componenti della famiglia cercherà di uscire da questa opprimente quotidianità. Carlo si lancierà in una difficile relazione con una vecchia fiamma del liceo. Giulia prenderà parte ad uno spettacolo teatrale. Paolo cercherà di fare una festa di compleanno memorabile, in modo da poter conquistare la ragazza di cui si è invaghito. Valentina tirerà fuori le unghie per diventare una “letterina”, nella nuova edizione di “Alì Baba”, celebre programma televisivo.
“Ricordati di me” è un film forte, estremo. Muccino analizza le aspirazioni e le frustrazioni quotidiane, in una famiglia che incarna tutti i difetti tipici delle rispettive categorie di figli e genitori. L’ipocrisia e la falsità del mondo in cui viviamo diventano emblematicamente evidenti nelle vicende di Valentina, presa nella sua scalata verso il mondo dello spettacolo. Vie di fuga si intravedono molto poco durante il film, e anche il finale, tipicamente “alla Muccino”, sembra ricordare che per quanto gli eventi cerchino di cambiarci, noi siamo sempre gli stessi. Il pessimismo tipico del regista si estende quindi a macchia d’olio per tutta la pellicola, e l’ironia che permeava i primi lavori di Muccino (“Ecco fatto”, “Come te nessuno mai”), fatica sempre di più a trovare spazio tra il cinismo e la cattiveria di un mondo senza uscite.
Il film è intenso, coinvolgente. I tocchi di classe del regista, che si muove ormai con disinvoltura ed esperienza, e la straordinaria prova dei protagonisti, fanno di “Ricordati di me” un piccolo gioiello. Il cast, magistralmente diretto, funziona alla grande. La Morante si riconferma un’attrice completa e bravissima. Fabrizio Bentivoglio sembra essere “diventato” Carlo Ristuccia, tanto convincente è stata la sua recitazione. Silvio Muccino è molto maturato dai tempi di “Come te nessuno mai”, e il ruolo che gli è stato ritagliato addosso dal fratello gli calza alla grande. L’esordiente Nicoletta Romanoff è addirittura sospettosamente brava nell’impersonare la diciottenne pronta a tutto pur di diventare famosa. Infine vedere recitare in maniera convincente Monica Bellucci e Pietro Taricone non può che essere un avvertimento del fatto che Gabriele Muccino è in effetti una grande speranza del futuro del cinema italiano. Siamo in buone mani.
Andrea Basti