Regia & Soggetto: Francesco Munzi
Sceneggiatura: Dino Gentili, Serena Brugnolo, Francesco Munzi.
Fotografia: Vladan Radovic
Musiche: Giuliano Taviani
Montaggio: Roberto Missiroli
Genere: drammatico
Italia 2005

Recensione n.1

Tra le poche uscite, dovute anche al pericolo oscuramento causato da Star Wars si segnala questo film italiano girato con tanta onestà intellettuale e intensità sociologica.
Saimir (Mishel Manoku) è un immigrato albanese che vive con il padre Edmond (Xhevdet Feri), operando in affari illeciti, facendo da trasporto e supporto agli scafisti che trasportano clandestini o prostitute. Il giovane albanese prova la strada dell’emancipazione manifestando l’intenzione al padre di voler fare un lavoro onesto, ma riceve la risposta che “il loro destino è quello che sono adesso”; prova anche la strada dell’integrazione: si innamora di una sua coetanea italiana, che non appena scoprirà che il coetaneo amico vive di espedienti e che non è propriamente adeguato a quello che lei si aspetta debba essere e fare un ragazzo nei confronti della sua ragazza, lo molla senza possibilità di replica, senza dare a Saimir la possibilità di spiegarsi, capire, cambiare, ma il ragazzo albanese è sano, nel senso che è integro dentro più di quello che si pensa. Un giorno capiterà che Edmond dovrà fare un favore ad un amico, piccolo boss mafioso albanese, che riceve clandestinamente dal mare una ragazza che pensa che le verrà offerto un lavoro ed una vita dignitosa, ma non è così. E’ una delle tante ragazze da “controllare” e avviare alla prostituzione, ma da lì capiterà l’irreparabile.
Il film presenta alcuni difetti drammaturgici tipici del cinema italiano d’oggi, indugiando e ondeggiando tra rumori, atmosfere, motorini, tintinnii di forchette e quant’altro, ma quest’opera compensa questi difetti attraverso una forte, precisa e autentica descrizione di situazioni e personaggi. Le facce, le scelte, i vestiti, i modi di fare, sono più che appropriati e coerenti. Il regista ha scelto anche molti non attori: gli zingari sono davvero loro e il protagonista è un non professionista; le facce e i comportamenti sono straordinariamente aderenti ad una realtà che il regista dimostra di conoscere bene. In molte parti il film è parlato nella lingua madre dei protagonisti. Funzionale allo stile dell’opera il montaggio e la fotografia, scarsa la distribuzione, ma avrebbe certamente meritato di meglio in questo senso.

Un altro merito di quest’opera è il fatto che non cade alla tentazione di un buonismo facile e sciatto. Gli immigrati sono quello che sono, nel bene e nel male, e gli italiani hanno un’indifferente e sterile tolleranza (o intolleranza) per chi viene dall’est povero o da altri paesi. Non vi è un reale e forte processo d’integrazione, e i tanti Saimir che affollano le nostre periferie (il nostro vive con il padre sul litorale laziale) hanno una strada segnata e ben poche opportunità, se anche il genitore nega a se stesso e al figlio un futuro diverso, per poi cercare flebilmente un recupero in altri momenti.
Il film sembra volerci ricordare che chi viene da lontano è una risorsa mancata se vive e cresce nell’oblio. Non è facile, e quest’opera mette in evidenza come cultura del lavoro e del diritto differenti possono essere problemi ad una reale integrazione. Lo scopo di quest’opera è fornirci uno spaccato reale: integrazione è anche “sforzo” (da tutte le parti in causa) di capirsi, cambiare, accettarsi.
Alla domanda di un bambino clandestino: “com’è l’Italia…”, Saimir tace. A distanza di anni da “Lamerica” di Gianni Amelio, questo è un nuovo film su immigrazione albanese, un’altra faccia di uno stesso fenomeno.
In questo senso sarebbe stato ancora più interessante amplificare un contrappunto fra i discorsi e i percorsi di aggregazione dei nostri connazionali (adolescenti e non) e la vita di Saimir, per far capire ancora meglio, come si è fin troppe volte detto e citato, che “la vita è qualcosa che scorre mentre noi siamo impegnati a fare altro”. Quando siamo distratti, non accettiamo, non capiamo e non ci sforziamo di capire, Saimir ci ricorda facce, luoghi, storie e situazioni di un Italia che non si vuole vedere, ma vera, tremendamente vera.

Gino Pitaro newfilm@interfree.it

Recensione n.2

Saimir e’ un giovane albanese che vive in Italia insieme al padre Edmond, connivente con il traffico di clandestini provenienti dall’Europa dell’Est e in cerca di solidita’ nel nostro paese. Il rapporto tra i due e’ di reciproco affetto ma molto conflittuale. Per Saimir il destino sembra gia’ scritto: lavoretti loschi e furti in appartamenti, sotto la guida non proprio luminosa della figura paterna, verso una vita che Saimir non sente appartenergli. E’ molto intenso il debutto nel lungometraggio di Francesco Munzi perche’, piu’ che dimostrare una tesi (i soliti luoghi comuni su etnie diverse con inevitabile inconciliabilita’ dimostrata a suon di sfighe), segue l’evoluzione emotiva del giovane protagonista fino alla presa di coscienza, dolorosa e definitiva. La regia e’ quasi invisibile, ma nel senso positivo del termine, in quanto la macchina da presa si fa tramite, senza la solita tendenza all’esibizione, della deriva dei personaggi. Alcune sequenze colpiscono per il rigore della messa in scena: il furto di gruppo nella villa con piscina e, piu’ di tutte, quella dello stupro della quindicenne appena giunta in Italia; e’ terribile il contrasto che si crea tra la quiete degli squallidi interni delle catapecchie, in cui si beve nell’indifferenza, e le grida disumane della violenza a pochi metri e sotto lo stesso tetto. Non si vede nulla ma arriva tutto il peso dell’orrore. Scritto e diretto con pochi fronzoli, il film gode di due interpreti straordinari: Xhevdet Feri, il padre che rappresenta la vecchia guardia incapace di mettere in discussione il suo stile di vita per timore di perdere tutto cio’ che ha faticosamente conquistato, e Mishel Manoku, il figlio ribelle che non si accontenta di esistere ma ambisce, giustamente, a vivere.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)