Samsara significa letteralmente ‘percorrimento’ del flusso del divenire: il cammino di mutamento, anche di prospettive, che caratterizza l’incessante evoluzione dell’uomo. Nel film di Pan Nalin, un giovane e promettente monaco dopo tre anni, tre mesi e tre giorni di isolamento, cade in una profonda crisi a causa dell’inconciliabilita’ tra le proprie pulsioni fisiche e la vita per cui e’ stato prescelto. Nonostante una certa leggerezza nel delineare personaggi e situazioni ed un’ambientazione bellissima tra le impervie e inaccessibili vette indiane, pero’, il film fatica a prendere una posizione. La prima parte, pur con rispetto e pudore, mostra tutti i limiti di una religione che in nome della spiritualita’ priva l’uomo di esperienze naturali, come il vivere appieno la propria sessualita’. Colpisce la negativita’ con cui il sesso viene considerato all’interno del monastero, la necessita’ di trovare una soluzione al risveglio ormonale del protagonista e il modo stesso in cui il giovane Lama pensa di sperimentare le cose terrene per poi potersene liberare.

Ma la narrazione procede senza un incisivo spirito critico e si limita ad osservare, mostrando solo alla fine una spiritualita’ lontana da ogni dogma nel lungo monologo della giovane e saggia co-protagonista. Personaggio che, senza una maturazione sufficientemente motivata, si trasforma, da ingenua sposa promessa, in una sorta di divinita’. Le possibili sfumature di un conflitto davvero interessante, quindi, arrivano ormai fuori tempo limite, dopo una lunga parte centrale in cui la storia si inceppa nei rodati e consunti meccanismi del romanzo d’appendice: l’amore impossibile tra un Lama e una donna qualunque, condito da rivalita’, commercianti usurpatori, tradimenti acrobatici (vedere per credere!) e sofferenti e decisive scelte di vita. La sceneggiatura e il ritmo blando dell’azione permettono allo spettatore di anticipare con poca sorpresa l’evolversi degli eventi. Anche la meticolosa cura con cui i dettagli diventano protagonisti e la suggestiva scelta delle location, sembrano trattati con un occhio piu’ vicino alle presunte esigenze del pubblico che all’essenza delle cose. Tutto e’ bello, perfetto, dai bambini ai costumi, dal cibo ai due giovani innamorati, le frasi guru si sprecano, ma non si riesce mai a sentire l’odore, il sapore, il mistero, di una terra a pochi conosciuta e di una religione molto di moda ma raramente approfondita. Nonostante le buone intenzioni, qualche momento intenso (il primo incontro amoroso) e la bellezza delle immagini, la verita’ delle cose fatica ad emergere, nascosta da una regia spesso invadente e da una patina di artifizio che non abbandona la visione. Si esce percio’ dalla sala con la sensazione che i personaggi e la storia narrata ambissero a raccontare altro. Un altro che, pero’, pur acquistando vigore nel retrogusto, resta soprattutto nelle intenzioni.

Luca Baroncini