Recensione n.1

Con la virtuosistica regia de “Il sesto senso” ha conquistato le platee e la critica di tutto il mondo. Con “Unbreakable” ha raccontato in modo originale la nascita di un supereroe, ma senza la sulfurea suggestione del film precedente. Con “Signs” la delusione si accentua, perche’ la indubbia abilita’ registica di Manoj Night Shyamalan non riesce a salvare un film poco coinvolgente e privo di emozioni. Lo spunto di partenza, su cui ha giocato il marketing per attirare migliaia di spettatori, sono i “crop circles”, enormi cerchi disegnati sul terreno la cui esistenza resta tuttora un mistero. In realta’ i segni del titolo (perche’ lasciare l’impronunciabile “Signs” originale?) sono piu’ che altro quelli del destino. La storia si concentra infatti sull’intimita’ di una famiglia reduce da una tragedia che ha causato la perdita della fede nel capofamiglia, fino ad allora prete della piccola comunita’ in cui abita. L’idea di un taglio trasversale al classico racconto di fantascienza e’ sicuramente originale e la prima parte di attesa riesce ad incuriosire, poi pero’ i nodi vengono al pettine in un epilogo consolatorio poco convincente, con un cambio di prospettiva risolutivo che non conquista.
Colpa soprattutto di una sceneggiatura che ripropone senza alcuna ironia (a parte un “Sembra la guerra dei mondi” pronunciato da Joaquin Phoenix) situazioni viste e straviste, a partire dai classici B-movie degli anni cinquanta fino alle produzioni piu’ recenti. Ecco quindi che il bambino asmatico in astinenza farmacologica (“Panic room”), il libro anticipatore di eventi (piu’ di un episodio di “Ai confini della realta’”), la vulnerabilita’ aliena all’acqua (“Il giorno dei trifidi”), la famiglia barricata nella casa (“Il ritorno dei morti viventi”), la corsa nell’oscurita’ attraverso i campi di grano (“Grano rosso sangue” ma anche il recente “Radio Killer”) vengono recepiti come un semplice e poco fantasioso “gia’ visto”. Non aiutano nemmeno le battutine sdrammatizzanti, i bambini saggi e lungimiranti (bravi, ma basta!), gli alieni iper-evoluti ma (s)vestiti come mummie ambulanti e incapaci di aprire una porta, e un protagonista, Mel Gibson, legnoso e poco credibile. Restano l’abilita’ del regista nel creare con poco un’atmosfera di pericolo imminente, la morbidezza dei movimenti di macchina, la fotografia evocativa di Tak Fushimoto, qualche momento di tensione e l’idea sempre interessante di un disegno nelle coincidenze che capitano nella vita, ma il gelo accompagna la visione e nessun brivido esce dalla sala insieme allo spettatore.

Luca Baroncini

Recensione n.2

Shyamalan é ormai indiscutibilmente il nuovo talento piu’ significativo dell’ultimo decennio, insieme a Tarantino e P.T. Anderson; ma va oltre, perché si pone idealmente come erede diretto della linea Hitchcock/Spielberg, ovvero di chi interviene all’interno del sistema classico del cinema hollywoodiano per riscriverne la sintassi della suspense. Regista popolare in senso pieno, il piano di Shyamalan é quello di realizzare un cinema immediatamente riconoscibile come quello del Maestro Hitchcock, il cui nome si fa sinonimo di brivido, mistero e forti emozioni. Come Hitchcock anche Shyamalan realizza due film impersonali e insignificanti, probabilmente su commissione, prima di arrivare al primo vero thriller (rispettivamente The Lodger e Sixth Sense), come Hitchcock anche lui si impone all’attenzione all’età di ventisette/ventotto anni, come Hitchcock anche lui ha l’abitudine di apparire in piccoli ruoli nei suoi film… queste le somiglianze biografiche più appariscenti.

Ma il cinema di Shyamalan é giustamente eleggibile come erede diretto di quello hitchcockiano (e in questo é un caso unico dagli anni sessanta ad oggi) anche e soprattutto per la sua totale autonomia rispetto al Maestro, ovvero Shyamalan non riflette in senso postmoderno sui meccanismi hitchcockiani, non ne fa la parodia, non si pone rispetto a quel cinema in stato di sudditanza alla maniera di un De Palma, e questa é la sua forza: Shyamalan conia nuove regole del thrilling, già fortemente incisive e rivoluzionarie, e con quest’ultimo bellissimo Signs dimostra inoltre l’intelligenza di non rimanere schiavo della propria maniera. é un film infatti che porta molteplici importanti novità e punti di rottura rispetto ai primi due, pur proseguendone la linea hitchcockiana di thriller classico, che opera all’interno del sistema hollywoodiano dei generi e dei Divi (prima Bruce Willis, ora Mel Gibson). Vediamo quali. Signs é un film che, come Unbreakable, mette in scena coraggiosamente una trama talmente assurda e ridicola che é a rischio di rifiuto; rischio in cui Shyamalan non incorre, grazie alla sua estrema abilità nel “farci credere” lo spettatore. Come in Hitchcock: l’inverosimiglianza del nucleo tematico di fondo viene fatta accettare grazie alla maniacale costruzione di una verosimiglianza narrativa. Realismo é la parola chiave. Il cinema di Shyamalan é un cinema che osa, che ha il coraggio di tuffarsi in acque folli e assurde, e di farlo con una sicurezza e uno sprezzo del ridicolo che lascia veramente allibiti: un cinema che non ha paura di nulla. Il finale con l’alieno dentro casa é il vertice piu’ bello, commovente e stilisticamente perfetto di questa poetica dell’incredibile, della demenzialità possibile, in bilico tra lo stupore, la suspense e la risata liberatoria. Un cinema che brucia ogni tabu’, ogni freno ideologico, e vola alto. Signs prende di petto il cinema di fantascienza degli anni 50/60 (l’invasione aliena, il tema del piccolo villaggio assediato, il cattolicesimo e l’ottimismo di fondo) ibridandolo con commistioni da Spielberg (Incontri Ravvicinati e la poetica del quotidiano), Romero (il gruppo famigliare assediato nella cantina di La notte dei morti viventi, così come il tema della contaminazione e della città in quarantena de La città verrà distrutta all’alba), e ancora Hithcock (ovviamente Gli Uccelli), e di questo cinema ne riprende il candore, l’ingenuità programmatica, le atmosfere naive e sopra le righe. I personaggi un po’ bigotti, le frequenti parentesi umoristiche, l’ingenuità fanciullesca di molte situazioni, sono dovute a questa operazione di riflessione cinematografica, comunque mai gratuitamente nostalgica alla maniera di un Joe Dante qualsiasi. Ecco quindi messi da parte i toni cupi, l’andamento lento e angosciante, il pessimismo di fondo dei primi due film. Qui le atmosfere thriller si sposano perfettamente con un impianto più scanzonato, solare e ironico.

E poi viene meno il meccanismo shyamalaniano piu’ tipico, quello del colpo di scena conclusivo, abbandonato qui a favore di un bellissimo “non spiegazionismo” in linea col cinema di fantascienza che ricalca (il pianeta Terra che si salva da solo, con i suoi anticorpi, dall’invasione aliena, come ne La guerra dei mondi, con il medesimo richiamo a Dio), ma dove però viene anche effettuata una trasgressione “horror” rispetto a quel cinema col geniale colpo d’ala della lotta contro l’alieno, un alieno che viene mostrato a tutto schermo, senza veli, che va ucciso a mazzate anche se é terrorizzato e indifeso piu’ degli stessi umani… Rispetto ai primi due film, questo Signs sembra rifiutare parzialmente il formalismo serioso e ricercato che già sembrava il marchio di fabbrica del cinema di M. Night Shyamalan: la fotografia si fa piu’ semplice, non piu’ luccicante e nitidissima dove tutto é a fuoco, anche i movimenti di macchina vengono meno a favore di uno stile piu’ piano e meno virtuosistico, uno stile che non ricerca piu’ l’angoscia di atmosfere incombenti e dilatate fino all’inverosimile ma che al contrario si piega a una narrazione piu’ ritmata, con piu’ colpi di scena, con piu’ situazioni movimentate…

Kaplan

Recensione n.3

E’ in quel minuto di buio nel bel mezzo dell’azione che M. Night Shyamalan cerca di comunicare con chi si ostina a vedere nei suoi film solo morti verdognoli, supereroi spaventati e alieni piu’ o meno credibili. Ci vuole coraggio, a oscurare a lungo la scena nel bel mezzo dell’azione, e il geniale regista indiano lo fa come a dire “ehi, orsu’, prova a guardare oltre”, come dice la moglie morente a Graham, “Vedi”.
Sono uomini al buio, gli uomini di Shyamalan, uomini che non hanno piu’ il coraggio, uomini migliori degli altri e proprio per questo piu’ spaventati. Uomini che non vogliono vedere che sono morti, vedere che per aiutare devono guardare il Male in faccia, vedere che la fede puoi anche perderla, ma non puoi negare il conforto a chi si appoggia a te.
Le donne e i bambini aspettano che i loro uomini riescano a piangere, quel pianto catartico che aiuta a essere felici, perche’ avere fede (in qualunque cosa, non solo in una religione), credere che ci sia davvero una “struttura che connette” significa in fondo essere felici nonostante il dolore, o almeno accettare la vita senza scappare.
Esplicitando questo tema nella figura del prete spretato Shyamalan sembra pronto a chiudere quella che appare adesso una riuscita trilogia sulla paura di vivere e di credere nella vita, sensazione rafforzata dalle numerose autocitazioni: la porta della cantina, l’alieno nel televisore, l’acqua come elemento negativo (e’ contaminata!!), i suoi camei sempre piu’ importanti e sempre come medico, il baseball.
E per chi pensa che una mazza da baseball non c’entri niente con i valori e con la fede, consiglio di fare amicizia con Owen Meany, il protagonista di Preghiera per un amico di John Irving, autore americano che conosce e ama l’India quasi come Shyamalan conosce e ama gli USA: guardando oltre.

Mafe

Recensione n.4

Terzo film del regista di origine indiana Shyamalan, Signs, ha consacrato il suo autore rendendolo una delle figure più influenti di Hollywood.
Come nel precedente, Unbreakable e nel Sesto Senso, il regista s’ispira nella forma al film di genere. Questa volta il suo sguardo è sul fantasy anni ‘50 Usa, quello di La Guerra dei mondi. Immancabili sono alcuni segni distintivi della sua poetica: il vedere oltre dei fanciulli, la trascendenza visibile in mezzo a noi, la ricerca della verità come ricerca dell’assoluto.

Il film percorre le vie tracciate dal maestro Hitchcock, credendo fino in fondo in un cinema di attesa e inazione, capace di emozionare con dettagli banali e minimi. Il coltello usato come specchio, i bicchieri ripieni d’acqua presenti in ogni luogo della casa, la tv con le inquietanti notizie sempre di sfondo, il walkie talkie con gli strani suoni percepiti, sono i tasselli di un puzzle del mistero. I rumori e la musica alla Herrmann contribuiscono alla costruzione di questo castello degli indizi, dove l’invisibile ha più importanza del visibile, l’idea immaginativa domina sulla poetica dell’effetto speciale. Degli alieni vediamo solo parti del corpo, udiamo i rumori che provoca la loro presenza. L’immaginazione umana crea mostri più spaventosi di qualsiasi immagine cinematografica. Il lungometraggio, come i precedenti del filmaker, ha anche una sua deriva metafisica. Racconta la storia di un pastore che ha perso la fede nell’assoluto alla morte ingiusta, inspiegabile, della moglie. Mel Gibson aderisce perfettamente al ruolo, riesce a dare corpo a questo uomo smarrito, spettro alla ricerca di una sua dimensione. “La nostra vita è predeterminata da un entità sovrannaturale, oppure è la somma di eventi casuali?”

Risulta interessante la visione di questa America periferica e sonnolenta (la campagna nei dintorni di Philadelphia) ai bordi dei grandi avvenimenti, ma al centro della ricerca sul significato ultimo delle cose. Shyamalan pone un uomo ordinario al centro di eventi straordinari per scandagliare le pieghe del non visibile che ci circonda. Il suo cinema è come sempre spirituale, etico, anche nel suo porsi come manifesto di un cinema dell’invisibilità e del silenzio nel caos di immagini contemporaneo. Lo svolgimento dell’intreccio è a tratti supponente e meccanico, la risoluzione è deludente troppo concretamente razionale. In ogni caso il regista attraverso la sua personalità forte, la sua elegante capacità narrativa è il miglior investimento futuro per l’hollywood contemporanea.

Paolo Bronzetti

Recensione n.5

In Pennsylvania compaiono i “cerchi”, ed è subito psicosi. L’occhio del regista si sofferma sulla vicenda di una famiglia, già provata dai dolori terreni, ora alle prese, coi misteri del cosmo.
La convinzione per la quale, chi ha già fatto un ottimo film, non dovrebbe vivere di rendita, ma impegnarsi per evitare passi falsi, viene rafforzata da questa triste prova dell’acclamato autore de “Il sesto senso”.
Rivisitare “La guerra dei mondi”, attualizzandola con fatti di cronaca che inquietano da anni l’opinione pubblica, sarebbe potuta essere una grande idea.
E invece, “Signs”, dopo un inizio discreto, rimane un brutto film, che non aggiunge nulla d’interessante al cinema di fantascienza, e tantomeno apporta nuove teorie al caso dei “cerchi”.
Un bravo Mel Gibson, che però sembra non essersi accorto di aver cambiato film, e di non essere più sul set di “We were soldiers”, non può bastare a reggere le sorti di un film condannato in partenza. E’ la fiera dei luoghi comuni: la famiglia “uber alles”; la perdita della religione, in seguito alla perdita dell’amore; una fattoria in mezzo ai campi e la vita semplice della provincia americana. Mancavano solo lo steccato bianco e il bambino sul seggiolone blu!
Va sottolineato che la vicenda si trascina per quasi due ore senza senso; alla fine del primo tempo, ci si domanda già cos’altro può accadere, visto che è stato già tutto detto e previsto. E infatti, accade l’improponibile!
Le creature dello spazio vengono fatte vedere, e da quel momento in poi, a cascata, una lunga serie di banalità; dopo aver smarrito ciò che rese eccelso Mr. Alfred Hitchcock, vale a dire il gusto del non visto ma sussurrato, il gusto dell’invisibile, e la paura del dubbio, Shymalan rivela anche il numero di scarpe del protagonista, in una “geniale” lotta fra l’uomo e l’alieno, a colpi di mazza da baseball. Quando lo sport vince tutto! . Senza trascurare l’eventualità che lo sport sia una metafora dell’America, e da qui, un delirio crescente: l’onnipotenza americana, che contagia anche un piccolo indiano.
L’abuso di torce elettriche dalle batterie infinite, che avrebbero reso la vita salva ai ragazzi di BWP, cadenza il tentativo di difesa dei protagonisti che si barricano in una lotta impari, che quando potrebbe terminare con la loro strage, regalandoci finalmente un vero colpo di scena, conferma il buonismo imperante, consegnandoci un lieto fine prevedibile già dalle prime battute.
A questo punto non resta che citare in ordine sparso alcune chicche: la cena non consumata che non commuove; il bambino redivivo dal gas alieno, grazie ad una provvidenziale crisi d’asma; la moglie moribonda, tranciata in due dal pick-up che fa un monologo degno di sir Laurence Olivier; ma soprattutto, la sceriffa che mette a parte dei dettagli più truculenti dell’incidente della succitata moglie, il marito appena intervenuto.
Cose belle, che non sorprendono, tenuto conto che provengono da un regista che si ritaglia un cameo assolutamente inutile e forzato, dopo aver tentato scene thriller che non suscitano il benchè minimo salto sulla sedia.
Un film americano, fatto da un non-americano, del quale ci rimarranno solo i caschi di carta argentata.

Maggie

Recensione n.6

[PLOT SPOILER!]

Giunto al terzo capitolo del suo personalissimo tentativo di rivisitare dall’interno i meccanismi del b-movie, Shyamalan – a quanto pare – comincia a mostrare la corda.
Premesso che non sono mai stato un estimatore del regista indiano trapiantato negli U.S.A., avevo comunque apprezzato l’approccio non convenzionale agli schemi del ghost-movie e del film di supereroi. The Sixth Sense e Unbreakable sono film piuttosto divertenti, e con qualche ideuccia discreta. Di certo non penso siano dei capolavori.

Con Signs, il signor M. (Manoi) Night (originariamente Nelliyattu) Shyamalan (che si dovrebbe pronunciare Scia – ma – loun, come apprendiamo leggendo Empire di ottobre) ci riprova, mescolando la Guerra dei Mondi di Wells, Gli Uccelli di Hitchcock, La notte dei morti viventi di Romero, Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg e un po’ di Bergman (???) per il personaggio del prete-che-perde-la-fede-e-la-ritrova, interpretato da Gibson. Il tutto all’insegna di un understatement che stride efficacemente con il tema degli alieni. Il film offre, dunque, un quadro alquanto composito. Se tutta la prima parte (in cui prevale la suspense e ci si addentra nei territori del fantastico todoroviano) risulta molto convincente, nella seconda (in cui prevale il tono drammatico e l’invasione aliena è ormai un dato certo) l’interesse cala notevolmente, sino ad un finale molto sottotono, da parecchi considerato il vero punto debole della pellicola (“Shyamalan non era il re dei finali ad effetto?” è la domanda sulla bocca dei detrattori). I meravigliosi titoli hichtcockiani, con tanto di effetto “BU!” (chi diceva che i titoli di testa sono l’anticamera del senso?…), introducono nel migliore dei modi il mondo dell’ex-reverendo Graham Hess. Non c’è un attimo di respiro e finché si è costretti ad oscillare tra l’incredulità e l’accettazione di fronte allo spettacolo dei crop circles (i cerchi nel grano1) e delle misteriose presenze, i brividi di piacere sono garantiti. Shyamalan sa condurre ottimamente il gioco, sciorinando con grande sapienza tutti i trucchi del genere e anche qualche perla di regia: bellissimo lo sguardo esterrefatto di Gibson che, mentre consola figlia spaventata da “un “mostro”, è costretto a dubitare che sia tutto un brutto sogno; o i lentissimi movimenti laterali della mdp; e anche tutte le tappe dell’invasione viste attraverso lo schermo della TV.
Ma quando si scoprono le carte (l’invasione è cominciata, gli alieni sono dei cattivoni e ci vogliono divorare) il film inizia a mostrare i suoi limiti, diventando un po’ troppo prevedibile e ripetitivo. Il regista è un convinto assertore della formula “massimo dell’effetto col minimo dei mezzi” e delle immense capacità immaginative del suo pubblico (capacità sulle quali mi permetto di nutrire dei dubbi…). E in base a tali presupposti decide di mostrare molto poco, dando così modo allo spettatore di evocare mentalmente quello che non vede: da qui il continuo gioco di sguardi verso un fuori campo che non ci è mai dato di conoscere (il che fa molto “b-movie a budget zero”). La cosa funziona soltanto finché l’espediente non si ripete con tale insistenza e sistematicità, da appesantire la visione (vedi la lunga l’inquadratura sulla torcia, nella claustrofobia sequenza della cantina). E quando nel finale vediamo davvero l’alieno, le nostre aspettative cozzano terribilmente contro la figura in CG di un mostro arrabbiatissimo sì, ma molto pasticcione e vulnerabile.
La recitazione degli attori – come nei film precedenti di Syamalan – è trattenuta, quasi straniata (bravissimo Phoenix). E colpisce la presenza dello stesso regista nel ruolo dell’assassino (involontario) della moglie di Hess: molto più di un cameo alla Hitchcock e – direi – molto meno di una decente prova d’attore… Ma quale sarà il significato di questa presenza? Il regista è colui che ci fa perdere la fede per poi farcela ritrovare (un po’ semplicisticamente …) alla fine del film?
E proprio il discorso sulla fede, sulle coincidenze, sul presunto finalismo insito nelle cose o sulla completa mancanza di senso dell’universo, appare la parte più fiacca dell’opera. Il travaglio di Hess è poco credibile, così come il suo repentino recupero dell’abito da prete. Mi è sembrata troppo meccanicistica, infatti, l’equazione “morte della moglie = perdita della fede, salvataggio in extremis del figlio = ritorno della fede”. Si può debitamente pensare perciò che proprio il dramma di Hess sia l’elemento più debole del film, specie quando si capisce che tutta l’invasione extraterrestre – in soldoni – è soltanto lo strumento necessario per la ri-conversione finale del reverendo.
In conclusione un film riuscito a metà, curioso ibrido di fantascienza, horror e dramma da camera, che non sa e non vuole decidersi tra i tre, e dunque lascia indeciso anche lo spettatore.
5.5/10

Sasha Di Donato

1 Il regista si è rivolto ad un certo Jimbo Breen per creare sul serio, senza trucchi, i cerchi nei campi di grano degli Hess. E così il simpatico Jimbo, usando una specie di compasso con corda e bastoni di legno, si è messo al lavoro, attento a non spezzare gli steli ma soltanto a piegarli, come era stato esplicitamente richiesto da Shyamalan. A quanto pare c’è voluto molto più di una nottata per completare il tutto… (se ne parla sempre nel numero di ottobre di Empire).