Scheda film

Regia: Nicolas Winding Refn
Soggetto e Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn
Fotografia: Larry Smith
Montaggio: Matthew Newman
Musiche: Cliff Martinez
Scenografia: Bett Mickle
Francia/Danimarca, 2013 – Thriller/Drammatico – Durata: 90’
Cast: Ryan Gosling, Kristin Scott Thomas, Tom Burke, Vithaya Pansringarm, Yayaying Rhatha Phongam
Uscita: 30 Maggio 2013
Distribuzione: 01 Distribution

 Architetture del male

Raccontare la malvagità, il cinismo e ricongiungere tutto questo alla lotta tra uomo e Dio, andando oltre la moralità ed il senso quotidiano delle cose. Questo è Solo Dio Perdona.
La trama in se stessa risulta piuttosto lineare. Il protagonista, Julian (Ryan Gosling) è gestore di un club di pugilato a Bangkok, ma in realtà è uno dei leader che gestiscono un traffico di droga. Dopo che il fratello di Julian uccide sadicamente una prostituta, la polizia del luogo si rivolge ad un poliziotto in pensione, Chang (Vithaya Pansringarm), che basandosi su un concetto di giustizia quasi medievale, arriva alla conclusione che la punizione per l’assassino in questione sia la morte. Nel frattempo,per recuperare il corpo del figlio, arriva la madre dei due ragazzi, Crystal (Kristin Scott Thomas), a capo, insieme ai figli, dell’associazione criminale. Il chiodo fisso della donna è di consumare una tremenda vendetta nei confronti degli assassini del figlio.
Come già anticipato, il film diretto da Nicolas Winding Refn, al suo decimo lungometraggio dopo il grande successo ottenuto con Drive, parla soprattutto del conflitto che si instaura spesso tra uomo e Dio e di un uomo che paradossalmente crede di essere Dio stesso. Questo soggetto, che in questa storia è impersonficato nel personaggio dell’ex poliziotto Chang (interpretato magistralmente da Pansringarm), non considera i normali rapporti di giustizia che esistono (non sempre) tra gli uomini comuni, ma si ritiene anzi del tutto giustificato nel portare la morte a chi, a suo insindacabile giudizio, se la meriti, trovando come suo debole oppositore Julian, che tuttavia non riesce ad opporsi a lui con molta forza e decisione, forse depositario di un genere umano stanco e sovraccaricato dal dolore e dalla malvagità che lo circonda e che lo ha sempre condizionato in quella che altrimenti sarebbe la sua naturale affermazione individuale e collettiva.
In questo quadro le scene di violenza presenti nel film, sebbene risultino molto forti visivamente, mantengono sempre una potente connotazione simbolica, che testimonia coerentemente questo intento di raccontare un mondo calato totalmente nella malvagità, vista come unico punto di osservazione del mondo circostante. Non a caso gli spazi scelti sono quelli che rimandano ad un microcosmo di conflitti perenni, come possono essere un ring di pugilato o una gang di criminali. La conseguenza di questo “adeguamento al malvagio” è un sovvertimento di tutti i ruoli tradizionalmente attribuiti ai personaggi di un film nel suo percorso narrativo, trasformando un poliziotto che cerca di ristabilire un equilibrio in un dio della morte che uccide i suoi nemici con metodi sempre più sadici; caratterizzando quello che dovrebbe essere un feroce spacciatore in un individuo silente, isolato e apatico e quella che dovrebbe essere una guida spirituale e morale come è di solito una madre amorevole (interpretata da una Kristin Scott Thomas del tutto inedita e volutamente sopra le righe), in una cinica e mentalmente disturbata matrona a capo di una potente organizzazione criminale. Ecco quindi che l’eroe diventa l’antagonista, quest’ultimo si trasforma in uno sgangherato e poco credibile eroe e un mentore è il deus ex machina involontario di tutti i problemi del protagonista.
Anche l’aspetto sonoro risulta molto congeniale a definire questo lavoro. La musica volutamente ingombrante e disturbante, composta da toni bassi ed incalzanti (che richiamano i temi dei videogiochi di Kung Fu e di lotta) crea una forte sensazione di tensione, soprattutto nella prima mezz’ora del film, dove i ritmi sono volutamente molto dilatati, come a dare l’impressione di una calma apparente, prima di una tempesta che sta per arrivare. Musiche gravi che per altro contrastano in maniera evidente con le melodie leggere dei karaoke cantati da Chang durante due sequenze del film nelle quali l’ex poliziotto sembra quasi un messia che cantando annuncia la lieta novella ai suoi discepoli. I rumori ovattati del mondo circostante connotano poi in maniera evidente il distacco dei personaggi da ciò che li circonda. Da ciò che quindi è la realtà. Quasi come se loro non fossero veramente appartenenti al nostro mondo attuale, ma membri di un universo mitico, estremizzato in negativo, che però potrebbe diventare un probabile futuro anche per noi.
L’esito è un un’opera estremamente evocativa e moderna come non se ne vedevano da tempo, che gioca con gli stilemi drammaturgici convenzionali, reinventandoli ed applicandoli ad un mondo senza regole e senza morale. Un mondo che, per quanto interessante possa essere da vedere su uno schermo, suona più come un avvertimento che come una premonizione.

Voto: * * * *½

Mario Blaconà

Julian e suo fratello Billy gestiscono una palestra di Muay Thai a Bangkok, come copertura per le attività criminali della famiglia. Colpevole dell’omicidio di una prostituta minorenne, Billy verrà ucciso a sua volta dal padre della ragazza, innescando una catena di sanguinarie ritorsioni.
L’affermazione più nota di Nicolas Winding Refn, “Art is an act of violence”, andrebbe parafrasata con urgenza dopo la visione di Solo Dio perdona: “Violence, is an act of Art?”. Il regista danese sembra esserne convinto, e mette in scena il suo personalissimo Edipo a Bangkok, un silente Ryan Gosling, in una Thailandia da girone infernale, bagnata dai toni scarlatti delle luci fluorescenti dei neon e intrisa nel rosso carminio del sangue. Nobilitare frattaglie exploitation, che si tratti di spaghetti western o di film asiatici di serie B, attraverso l’Atanor dello stile non è un’operazione alla portata di tutti, soprattutto con un rischioso sottotesto da tragedia greca. Eppure il film, ennesima odissea allucinata ed estraniante nello spazio interno, è assai più riuscito di quel fumoso vaniloquio che era Valhalla Rising, anche se forse deluderà gli estimatori dell’accattivante Drive.
#IMG#La trama, un Sofocle in versione pulp, è naturalmente solo un pretesto per aggiungere un nuovo tassello alla privatissima mitologia di Winding Refn, un nuovo personaggio/simbolo liminare, al confine tra il mondo fisico e quello spirituale, alla stregua del risorto Mads Mikkelsen/One-Eye o dello stesso Ryan Gosling nel film precedente. Il poliziotto Chang è un Dio vendicativo che pratica una “lex talionis” (in senso letterale) veterotestamentaria di matrice protestante, in barba al buddhismo professato in Thailandia. Un Dio che punisce con imparzialità, soprattutto chi “non ha occhi per vedere, né orecchie per sentire”, secondo il proprio inflessibile concetto di giustizia, risalente alla legge mosaica. Un Dio che, forse, rappresenta la risposta alla spasmodica ricerca di Julian. Questi, che ha ucciso il padre prima di rifugiarsi a Bangkok, è un uomo con il disperato bisogno di credere in qualcosa, afflitto da un confuso desiderio d’espiazione. Il silenzioso beneplacito dell’onnipotente Chang alla vendetta del padre della ragazza assassinata, assenso che, si noti bene, non dispensa dall’inevitabile punizione, avrà come conseguenza l’arrivo in città di Crystal, griffatissima Mater Terribilis in stile Donatella Versace (NWR dixit). Affetto da un feroce complesso di Edipo, Julian si ritrova passivo e impotente davanti alle attenzioni dell’amante-prostituta Mai. Incapace di rispondere alle aspettative materne, viene inoltre costantemente umiliato dalla madre per la sua codardia e per non essere all’altezza del primogenito scomparso, dimensioni dei genitali compresi. Costretto ad assecondare la voglia di rivalsa di Crystal, Julian si troverà suo malgrado coinvolto in una catena di vendette efferrate. Ma è possibile battersi con Dio e uscirne vincitori? La risposta è evidentemente negativa, ma prima di subite un’evirazione simbolica come il suo illustre predecessore, ci sarà ancora il tempo per immergersi nelle carni materne, per un terminale ritorno nell’utero.
Se in Bronson, a tutt’oggi uno dei suoi lavori più riusciti insieme alla trilogia di Pusher, Winding Refn aveva ufficiosamente eletto Derek Jarman a suo nume tutelare, questa volta dedica il film a Jodorowsky, Ma si tratta più di un attestato di stima che di un riconoscimento di effettiva filiazione. Altrettanto vacuo sarebbe snocciolare sequele di presunti referenti, molesta deformazione professionale della critica. Solo Dio perdona ricorre a una struttura da B-Movie, che poi sgretola in mille pezzi distanziandosene con gelo siderale, nello stile ormai inconfondibile del regista danese. Il risultato è uno sfaccettato caleidoscopio che tende all’onirismo e all’astrazione, in primis attraverso il raffreddamento della temperatura emozionale. Le emozioni dei protagonisti rimangono imbozzolate nel ghiaccio ma sordamente pulsanti, alla pari del tappeto elettronico della colonna sonora di Cliff Martinez. E’, insomma, inconfondibilmente Nicolas Winding Refn, dai lentissimi movimenti della macchina da presa che esplora gli istoriati corridoi del club di Julian, le cui circonvoluzioni sono affini a quelle del cervello umano, alle spiazzanti, rarefatte sequenze del karaoke di Chang. E se il film è più doloroso, contratto e meno esibizionistico di Drive, resta comunque un risultato invidiabile.
Costretto entro i limiti di un personaggio imploso e impotente, Ryan Gosling riesce a fare miracoli, mentre è una vera sorpresa vedere Kristin Scott Thomas alle prese con un personaggio così al di fuori dei suoi canoni abituali. Meno convincente la prova di Vithaya Pansringarm nel ruolo di Chang, a meno che la sua composta impassibilità non voglia mimare quella delle maschere propiziatorie thailandesi. E non date credito a chi vi racconta che Solo Dio perdona è eccessivamente violento. Sarà certamente uno spettatore del MOIGE.

Voto: * * *½

Mario Blaconà

 Confernza stampa – Roma, 27 maggio 2013

Si è svolto a Roma l’incontro con il regista danese Nicolas Winding Refn, il quale ha presentato il suo ultimo film “Solo Dio perdona”. Accolto a Cannes con reazioni contrastanti, il film uscirà nelle sale il 30 maggio, distribuito dalla ”01”.
Nel suo film ci sono moltissimi richiami al cinema d’azione di serie B. In primis il titolo, che a noi spettatori italiani ricorda “Dio perdona, io no”. E’ un riferimento intenzionale?
Il cinema italiano mi piace molto, e amo moltissimo gli spaghetti western. Non potendo andare in Spagna a girarne uno, ho deciso di andare a Bangkok e fare qualcosa che li richiamasse almeno nel titolo. Quello che mi piace degli spaghetti western è che, a differenza dei western americani, presentano una realtà estremizzata, surreale. Al contempo hanno un sottotesto psicologico maggiore di quanto non abbiano i classici western americani.
Ritiene che il suo ultimo film assomigli a questa sua ultima definizione o al western americano, anche se non è un western?
Diciamo che questo film è molto più “italiano” di quanto non sia americano.
Lei ha dichiarato: “Ho sempre pensato che avrei realizzato film sulle donne, e invece ho finito per fare film su uomini violenti.” Come mai?
Credo che sia la donna dentro di me. Non mi piacciono gli uomini, non mi piace giocare a poker, non bevo birra, non pratico sport, non faccio niente di tutto questo perché non mi piace nulla di tutto questo. Amo le donne, mi piacciono le donne e prima o poi farò un film su di loro. Ma in realtà quello che ho realizzato finora sono film che parlano di uomini che hanno dei comportamenti violenti. Non so rispondere a questa domanda, non so il perché. Forse perché sono un uomo.
Lo spaghetti western attingeva al cinema di Kurosawa. Mi sembra che anche nel suo film ci siano riferimenti a Kurosawa…
A me piacciono tutti i registi, tutto il cinema. Noi siamo legati a quello che ci ha nutrito, che ci ha fatto crescere e c’è sempre un canale che ci riporta a quella che è stata la nostra fonte di ispirazione. Mi piacciono Akira Kurosawa e Takashi Miike, mi piace tutto il cinema asiatico perché è un qualcosa che avverto come alieno, essendo io culturalmente estraneo a questo tipo di cinema. Per me è come volare e viaggiare nello spazio. Amo molto anche i registi moderni come Park Chan-wook, il problema è che non riesco a ricordarmi i titoli dei film coreani, cinesi o giapponesi. Un film che mi è piaciuto molto è il western thailandese “Le lacrime della tigre nera” (di Wisit Sartsanatieng) .
Dopo il grande successo di “Drive”, ha fatto un film abbastanza particolare…
Sono stato molto fortunato perché ho sempre potuto godere di una totale libertà creativa nel fare i film. E’ una delle ragioni per le quali, anche quando sono stato vicino a chiudere un accordo con un grosso Studio, mi sono sempre tirato indietro. In cambio dei soldi devi rinunciare alla libertà creativa, e finora ho ritenuto che non ne valesse la pena. Tante persone cercano di influenzarti, e mantenere la libertà creativa è come andare in guerra.
#IMG#Che influenza ha avuto su di lei Jodorowsky, a cui ha dedicato il film?
Credo che Jodorowsky abbia influenzato il cinema molto più di quanto la gente non sappia, un po’ come Kenneth Anger. Negli anni ‘90, quando questi film si potevano vedere solo in VHS, Jodorowsky era una specie di mito, una leggenda. I suoi film non erano in circolazione e bisognava trovare qualcuno che ne avesse una copia. Questo per me era una specie di sogno, un cinema su cui fantasticavo e che andava contro le convenzioni, addirittura contro le leggi della cinematografia. Alla fine sono riuscito a vedere “El Topo”, tramite il laser disc giapponese. Sapevo che era quello il tipo di cinema che volevo fare. Non era un film ma un’esperienza, un qualcosa di più, che andava oltre quello a cui eravamo abituati. Richiedeva una “forma mentis” completamente diversa, e la struttura di “Solo Dio perdona” in un certo senso è la stessa di “El Topo” o “La montagna sacra”, una struttura non lineare, episodica. Momenti diversi che messi insieme raccontano una storia, attraverso una costruzione poco ortodossa. E’ come entrare nella mente di una persona e vedere le immagini che vede quella persona, come se ci fosse un significato nascosto, un enigma che continua a crescere. Quando mi sento troppo sicuro di me, mi chiedo: che cosa avrebbe fatto Jodorowsky?
Come ha coinvolto Kristin Scott Thomas in questo progetto?
Per i miei film non ho mai tanti soldi a disposizione, quindi ero alla ricerca di qualche attrice sconosciuta. Avevo sentito che lei voleva lavorare con me e che aveva letto la sceneggiatura, e quindi ci siamo incontrati a Parigi. La conoscevo per i ruoli che interpreta di solito, quelli dell’aristocratica o della donna fragile, ma all’inizio della cena mi sono reso conto che non avrebbe avuto nessun problema a trasformarsi in una “strega stronza”. Trattandosi di un film che parla del rapporto madre/figlio, il suo è un personaggio molto complesso e stratificato. Tra l’altro lei mi ha detto che non le piacciono i film violenti, che non guarda nulla di estremo, che è una donna di mezza età inglese che vive a Parigi leggendo Oscar Wilde. Però era disposta a provare qualcosa di completamente diverso. Per interpretare questo ruolo si è completamente trasformata e mi ha mandato una foto in cui aveva i capelli lunghi e biondi. E io ho detto: “Salve, Donatella Versace!”
Rispetto a oggi, una volta si sentiva più ribelle?
Ho un odio radicato nei confronti dell’autorità, che ancora conservo. Credo che il principale nemico della creatività sia il buon gusto. Il mio lato punk non è cambiato, anche se con gli anni sono diventato più furbo o più intelligente. Magari oggi ho un aspetto migliore, ma io credo che si debbano conservare quelle parti di sè, soprattutto se si vuole lavorare nel mondo dell’arte. Non bisogna mai perdere quella scintilla, quel bisogno di creare.
Come ha affrontato a 24 anni il suo primo lungometraggio?
Quando ho realizzato il mio primo film l’ho fatto con l’arroganza tipica della gioventù. Un modo fantastico per iniziare!
Le mani di Ryan Gosling/Julian appaiono in diverse scene, in primissimo piano. Per lei che cosa hanno significato?
La prima idea che ho avuto per il film era l’immagine di un uomo che fissava le proprie mani, ma non sapevo che cosa volesse significare. Facendo il film mi sono reso conto che le mani hanno a che fare con il genere maschile, con la violenza. Se a un uomo tagli le mani, è come se sopprimessi tutti i suoi istinti violenti. C’è anche un aspetto che ha a che fare con la sottomissione, dato che quando si prega si mostrano le proprie mani. Ho sempre avuto l’ossessione della mani, quando ero ragazzino tendevo sempre a proteggerle quando mi trovavo in una situazione di pericolo. Hanno anche una certa analogia con i genitali maschili, e si può mostrare attraverso di esse l’impotenza o l’eccitazione sessuale. Quelle di Julian sono mani maledette. Un’altra cosa che perseguita un po’ tutti è questo discorso del rapporto tra madre e figlio. Che ci piaccia o meno, l’uomo, il maschio, il figlio, prima o poi vorrebbe tornare nel grembo della propria madre, anche se non lo ammetterà mai.
Com’è stata per lei questa nuova esperienza a Cannes? Si aspettava che da una parte della critica ci fosse un’accoglienza così contrastante?
E’ stato fantastico. Quando ho assistito a reazioni così violente, sia di coloro che hanno amato il film sia di coloro a cui non è piaciuto, ho capito di aver fatto qualcosa di giusto. Il cinema è arte, e l’arte è esprimere emozioni. Il cinema offre anche molte possibilità di profitti, perché attraverso questa forma d’arte si possono guadagnare miliardi di dollari. Ma per poter guadagnare hai bisogno di uno spettatore passivo, perché non si coinvolge e può consumare di più e più velocemente. Non partecipa, ma questa esperienza gli passa attraverso. Io credo invece che il cinema debba andare contro questo sistema, penetrare il pubblico, scioccandolo o rendendolo felice. L’arte deve colpire violentemente lo spettatore, perché soltanto in questa maniera rimane dentro di lui.
Quale sarà il suo prossimo film?
Sto per realizzare una serie televisiva, “Barbarella”, e mi piacerebbe molto fare un horror e una commedia.

Dal nostro inviato Nicola Picchi

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