Roberto Ando’ sta affrontando il pubblico italiano da due fronti: a teatro, con la regia di “Vecchi tempi” di Harold Pinter, e al cinema, con il film “Sotto falso nome”, da lui scritto e diretto. Entrambe le espressioni artistiche scandagliano il ricordo nelle sue molteplici sfumature. “Che cosa e’ vero? Che cosa e’ falso?” si domandava Harold Pinter, per far poi dire ai suoi personaggi che “Ci sono cose che si ricordano anche se non sono mai capitate” e, al contrario, “ci sono cose che possono non essere capitate mai, ma diventano reali nel ricordo”. Sulla base di analoghe suggestioni (qual e’ il rapporto tra vita vissuta e raccontata?), Ando’ costruisce un complicato intreccio che parte come un conflitto familiare per poi sfociare nel thriller. A dominare e’ dapprima una certa curiosita’, amplificata dall’incalzante ed evocativo commento sonoro di Ludovico Einaudi, ma via via la fascinazione si tramuta in distacco, complice una sceneggiatura accurata ma incapace di dare motivazioni forti ai personaggi e risposte chiare agli interrogativi che pone. Tanti i riferimenti cinematografici: da “Il danno” di Louis Malle, per la passione amorosa al centro dell’intreccio, a “Swimming Pool”, per la sofisticata ambientazione e le incertezze legate all’ispirazione letteraria, passando per un sesso patinato da magazine di moda, piu’ attento a look, decor e lingerie che alle pulsioni. Quanto agli attori, Daniel Auteil replica i silenzi e l’apparente imperturbabilita’ del Jean-Marc Faure de “L’avversario” e Greta Scacchi (interprete anche della piece teatrale) e’ brava nel tratteggio minimale ma incisivo del suo personaggio. La vera sorpresa, pero’, e’ la bella Anna Mouglalis, che passa dalla giovane pianista di “Grazie per la cioccolata” di Chabrol a un personaggio ambiguo e misterioso, che fa risaltare la sua naturale sensualita’. Il regista ha il pregio di affrontare una storia di genere (cosa rara nel panorama italiano), di impaginare le immagini con eleganza e di suggerire punti di vista non banali sull’identita’, il desiderio, il plagio, il senso di colpa, ma il suo cinema (meglio comunque del suo teatro) soffre di un’esposizione poco comunicativa. Chissa’, forse ha ragione Pinter, “Verificare e’ un desiderio comprensibile ma non sempre riusciamo a soddisfarlo”. Un conto pero’ e’ l’immagine evocata da un testo letterario, diverso l’impatto visivo di un racconto cinematografico. E il film di Ando’ finisce per risultare contratto come le emozioni del protagonista a cui da’ vita.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)