Questo SOTTO LA SABBIA è stato spacciato per capolavoro da più parti. Si tratta in effetti di un film sufficiente, ma che non raggiunge alte vette. Ozon cerca di maturare con questo dramma ambizioso, storia di una donna che non accetta la perdita – tanto improvvisa quanto misteriosa – del marito, ma il risultato oscilla tra alti e bassi, tra momenti di autentica poesia ed altri di estrema noia. Il difetto principale risiede nella sceneggiatura, che soffre di una mostruosa carenza di idee: il crescendo di follia della protagonista è descritto maggiormente dalla piccola metafora, dal gioco visivo, dall’intuizione, ma narrativamente risulta schematico, e i personaggi troppo stereotipati per interessare e tenere sveglio lo spettatore. E’ un film all’insegna del rigore geometrico, del tema del doppio, della simmetria. Un film che si esprime “sottovoce”, tocca con delicatezza il tema della mancanza, della morte, della solitudine, aiutato anche da una eccellente fotografia, sottoesposta come i contenuti. E’ un film che esplode con il passare dei minuti, che esce da un’oscurità latente, che colpisce dritto al cervello.
Proprio l’eccessiva cerebralità obbliga a respingere l’opera: a metà del film il messaggio è già assimilato, e non ci sono più spunti originali o sequenze davvero interessanti per seguire il resto. Inutile trastullarsi nel valore simbolico di quell’immagine o nella suggestione metafisica di quell’altra sequenza: manca la materia prima. Ozon ha un grande talento visivo, sa disporre gli attori, sà dare un senso a ciò che sta facendo, ma non sa narrare. Questo rende il suo cinema freddo e asettico, poco coinvolgente, poco viscerale. Le sue opere mancano dell’atmosfera malsana che si respirava in Fassbinder, autore al quale sembra perlomeno ispirarsi (ha anche adattato un suo vecchio testo, “Gocce d’acqua roventi…”, mai uscito in Italia), ma di cui non riprende il sadismo, la perversione, l’ossessione: il suo cinema è asciutto e vuoto.
VC AE