Recensione n.1
Londra, ai nostri giorni. Davis appena dimesso dal manicomio, si reca in una squallida pensione. Comincia poi una peregrinazione per il quartiere dove lui aveva abitato che si trasforma in un viaggio nel ricordo. Soprannominato in quel modo dalla madre perché intrecciava con le corde figura che ricordavano le ragnatele, rimane traumatizzato da un avvenimento, il padre avrebbe ucciso la madre per sostituirla con una prostituta. Realtà, allucinazione? Il film non da risposte. Il suo viaggio finisce dove era cominciato.
Male accolto dalla critica italiana, adorato da quella francese, l’ultimo film di Cronemberg divide come sempre. Tratto da un racconto di Mc Grath apparentemente potrebbe sembrare lontano dalle sue tematiche, ma ad una riflessione più puntuale vi si può ritrovare il tema principe dell’ universo cronemberghiano: il viaggio di un individuo all’interno della sua follia. L’ossessione principale dei film del regista quella per il sesso, appare nella sua evidenza. Sicuramente alla base della follia di Spider sta un complesso edipico mai risolto. Egli è molto attaccato alla madre e vederla che si bacia con il padre fa nascere in lui un forte senso di disgusto, che lo porta a fantasticare. Da quell’incubo non riuscirà più ad uscire.
Lo spider adulto è il risultato di questo avvenimento. Nella prima magnifica sequenza, lo vediamo scendere dal treno con una valigia che poi vedremo contenere i pezzi della sua storia, una sveglia, delle corde. Appare dunque come un personaggio beckettiano, che arriva e ritorna da un non luogo, e che cammina parlando tra se in una squallida periferia londinese, che appare nella sua indefinitezza, ne campagna ,ne città. Luoghi-non luoghi, ibridi che si confanno molto bene al mondo del regista. Come non luogo è lo squallido albergo dove va a vivere, fatto di squallide stanze vuote dove Spider prosegue il suo monologo. Queste location ricordano molto le stanze tortura dei precedenti film, dove i personaggi sembrano inghiottiti dagli oggetti. E’ qui dove si avverte maggiormente il senso di solitudine del protagonista quando in una magnifica scena ascolta da solo una straziante canzone di Natale.
Spider dunque si rivela più che un film sulla follia un film sulla solitudine e sul dolore.Dolore che esce a spazzi nelle confuse parole del protagonista, nelle pagine del suo diario scritto in una grafia incomprensibile, nello strazio dei ricordi di una infanzia amara rovinata dal troppo amore della madre. Madre che nella sua mente lo ha tradito e si è trasformata in una squallida puttana e che ora ricompare nella figura della padrona dell’albergo ,sinistra parodia della sua famiglia. A lui non rimane che ricercare il contatto con la madre sotto un mucchio di terra dove pensa che il padre l’abbia sepolta.Ma la madre è altrove, uccisa dall’ossessione di Spider e non può tornare.
Spider si rivela un film magnifico, duro e freddo come una necroscopia, senza speranza ne soluzioni. La grandezza del film sta soprattutto nella recitazione Di Fiennes, che scende magnificamente nei meandri della mente di Spider e in quella della Richardson che sa essere contemporaneamente madre amorosa, prostituta e severa padrona d’albergo.
Alla fine del film non rimane a Spider che scivolare nella propria follia, come capitava ai protagonisti di Crash, ad Irons di M. Butterfly e a tanti protagonisti dei film del regista.
Mauro Madini
Recensione n.2
Spider è un genietto di otto anni che costruisce ragnatele per fermare l’attimo fuggente e difendersi dall’ineluttabile “panta rei”. Spider è un uomo di circa quarant’anni che, dimesso dall’ospedale psichiatrico, cerca e ritrova il proprio passato in un quartiere periferico di Londra. Spider è un bambino che, in preda al complesso edipico, non riesce ad accettare che la madre ami lui ma anche il padre, e in maniera piuttosto diversa e “perversa”. Spider è un adulto disturbato che annota tutto il proprio passato su un blocnotes in un linguaggio che è a noi indecifrabile. Spider ha, da bambino, paura e timore del padre.
Spider rivede la madre nell’anziana istitutrice che dovrebbe aiutarlo a reinserirsi nella vita normale. Spider si sdraia in posizione fetale nella vasca, immerso nell’acqua, alla ricerca dell’utero materno. Spider detesta la “meretrice” che sottrarrà al padre e a lui stesso il caldo abbraccio della madre. Spider sa che il padre ha ucciso la madre in un momento di animalesco abbandono. Spider è consapevole che il gas, in tutta la faccenda, ha giocato un ruolo “primario”…
Spider è uno psicopatico che ci racconta le tragedie che hanno costellato la sua esistenza, snocciolandole a morsichi e bocconi, tra un’apertura e l’altra della preziosa valigetta che conserva il “tesoro”. Spider ha poche certezze: quattro camice indossate una sopra all’altra, un giro di spago che blocca un pezzo di cartone, le immancabili sigarette… E poi solo i ricordi. La bellezza e l’intelligenza della madre, andate sprecate fra le braccia del padre, il degrado etico di quest’ultimo, la decadenza morale delle quattro mura domestiche. Fino alla catarsi, al momento della vendetta che diventa espiazione purificatrice.
L’ambientazione è cupa e ossessiva, gli interni squallidi e maleodoranti, la luce diventa accecante solo quando tenta di rendere il delirio della follia. Si fa spesso uso dei contrasti cromatici, si utilizzano ad arte le zone di luce ed ombra. Indimenticabile la prima carrellata in piano sequenza che ci presenta il protagonista che scende confuso dal treno. Inquietante la compresenza di Spider adulto alla propria vita infantile. Splendida Miranda Richardson che ben sa rendere la duplicità intrinseca al ruolo materno. Irriconoscibile e sorprendente Ralph Fiennes (protagonista de “Il paziente inglese”). Chi è, insomma, Spider? Certamente uno di noi.
Mariella Minna
Recensione n.3
Ci si sprofonda nella poltrona fissando lo schermo bianco, poi le luci si spengono, la realta’ sfuma in un bagliore nero e prende il sopravvento una storia dai confini rettangolari. Gradualmente i colori, le voci, i suoni formano un tutt’uno che, pur nell’immobilita’ del viaggio, permette allo spettatore di camminare in un sottile e quanto mai precario limbo, dove emozioni e pulsioni hanno la possibilita’ di uscire allo scoperto. Il tragitto di “Spider” di David Cronenberg, pero’, non esce dal perimetro dello schermo. Si e’ testimoni di un delirio senza riuscire a penetrarlo. L’idea di una follia non giustificata in modo esplicito dal solito mattone in testa in eta’ pre-puberale e’ molto interessante, perche’ siamo abituati ad un rapporto causa-effetto in grado di risolvere meccanicamente qualsiasi alienazione.
Ma un soggetto cosi’ complesso avrebbe avuto bisogno di un approccio molto piu’ visionario, in grado di trasmettere quello che l’oggettivita’ dei fatti nasconde. David Cronenberg sceglie invece una messa in scena essenziale e cupa ma tutto sommato piatta, conferendo al racconto una lentezza che non diventa mai comunicativa. Il vagare di un dolente Ralph Fiennes, tutto occhi sgranati e biascichii, aggiunge poco ai moti del suo inconscio e l’idea di rendere il protagonista testimone del suo delirio e’, all’inizio accattivante, poi semplicemente ripetitiva. Come la tela di ragno entro cui “Spider” si rifugia coltivando la sua insana follia. Gli unici guizzi sono nei dettagli, molto cari al regista canadese e ammantati della consueta morbosita’ (una viscida anguilla per cena, i denti neri della “nuova” madre, lo sperma gettato in faccia allo spettatore), non sufficienti, pero’, ad approfondire un disagio e a renderlo toccante. Molto brava la camaleontica Miranda Richardson, meno convincente il volenteroso Ralph Fiennes: si ha costantemente la sensazione che l’attore prevalga sul personaggio.
Luca Baroncini
Recensione n.4
Dennis Clegg dopo essere stato dimesso da un ospedale psichiatrico sta cercando di ricostruire la sua vita. Scrivendo un diario cerca di scoprire la verità sul suo passato misterioso e traumatico e sulla causa della morte di sua madre…
Come nel film Scanner il regista David Cronenberg, isola le suo ossessioni sulle metamorfosi corporali, circoscrivendole all’interno dello spazio chiuso della mente umana. Il racconto in prima persona dello schizzofrenico Dennis Clegg è un racconto multiplo, non unitario. La soggettiva della mente malata del protagonista offre al regista la possibilità di analizzare la struttura e le derive del racconto per immagini. Nella pellicola il prologo diventa l’epilogo e il concetto di realtà, vera o apparente, è ucciso (come nel pasto nudo Burroughsiano). Lo psicodramma edipico messo in scena con elegante freddezza dall’autore canadese, è anche un agghiacciante viaggio all’interno della mente alla ricerca della definizione del concetto di realtà. L’alterazione, l’illusione e l’allucinazione nel racconto sono sullo stesso piano. La presenza di Clegg adulto, accanto al Clegg bambino nel ricordo allucinatorio, ha un effetto straniante. La rimozione catartica dopo la ricostruzione del trauma che ha generato la follia è impossibile, perché la stessa ricostruzione/rivisitazione è malata dall’interno.
Il virus cronenberghiano dopo il corpo ha intaccato la mente, generando tranelli e buchi neri nel racconto/confessione di Clegg (Cronenbergh). Quello del regista canadese è quindi un film sulla malattia della mente e del racconto filmico. Una malattia che ha sconvolto l’ordine delle cose, annullando ogni concetto estetico e manicheo, portando l’immagine sull’orlo di una vertigine ontologica. La fotografia dipinge gli interni con gli stessi colori degli esterni ricercando una piattezza cromatica irreale. La bravissima Miranda Richardson interpreta più personaggi, aiutando con questo espediente la creazione dei falsi mondi paralleli della scrittura di McGrath. La tela del ragno, è la metafora della ricerca di una perfezione impossibile nella realtà.
Complesso e sfaccettato, Spider è un film che nel suo distacco programmatico e apatico, nella sua esasperante lentezza narrativa può disturbare lo spettatore.
Lasciatevi avvolgere dalla sua ipnotica rarefazione, scoverete fra le pieghe una perfetta miscelazione di Becket, Kafka e Freud. Quasi un diario sulla narrazione letteraria novecentesca e sul rapporto tra scrittore e scrittura, personaggio e interprete.
Spider è un opera minimalista, ma non minore all’interno della filmografia di David Cronenberg.
Paolo Bronzetti
Recensione n.5
Spider, il ragno, o meglio la mente, nella cui ragnatela ci intrappola il nuovo film di Cronenberg, un gelido e asettico viaggio nella distorta mente di uno psicopatico, interpretato dal bravo Ralph Fiennes. Il regista canadese ci racconta infatti la storia di Spider, schizofrenico che, uscito dal manicomio, si reca in una casa di cura nel paesino in cui è cresciuto. Qui inizia una sorta di indagine-rievocazione del proprio passato e delle radici della propria pazzia, fino all’inquietante, edipica e matricida verità finale. Nei 99 minuti di Spider, Cronenberg immerge lo spettatore nella storia con una singolare focalizzazione interna diretta sul personaggio principale, e costruisce, pertanto, una prospettiva deformante che si snoda lungo un oscuro flashback “al presente”, una proiezione mentale tutta diegetica che giustifica anche la presenza “in campo” del pensante nel pensato. Lungo questa prolungata analessi Cronenberg dissemina particolari spaesanti, che trasmettono allo spettatore quella sensazione di “disturbo” che costituisce proprio l’intento principale del regista e oggettiva questo viaggio nel labirinto mentale di uno psicopatico.
Si va, quindi, da volute incongruenze narrative a visioni, dall’utilizzo della stessa attrice (Mirando Richardson) per più ruoli a continui salti dal presente ad un passato pensato nel presente. Il film, pertanto, si snoda come un intricato e funzionante meccanismo narrativo che gioca con l’immedesimazione e l’aderenza dello spettatore, riuscendoci molto bene, ma risultando, inevitabilmente, limitato. Decisamente presente, infatti, l’impressione che si tratti semplicemente di un esercizio di bella calligrafia, un esercizio cinematografico un po’ fine a se stesso. Questa impressione è accentuata da alcuni momenti di indecisione stilistica, in cui lo spettatore è lasciato in bilico tra due modalità di fruizione: da un lato il congegno elaborato da Cronenberg invita nella mente labirintica del suo personaggio e colpisce allo stomaco, dall’altro la rarefazione emotiva e l’asetticità tipiche del regista canadese costringono ad uscire dal meccanismo e ad osservarlo freddamente dall’esterno, trasmettendo un sensazione di parziale incompiutezza. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Patrick McGrath, il quale ha personalmente curato il trattamento e la sceneggiatura.
Simone Spoladori
Recensione n.6
Arrivato in una sorta di laido rifugio per malati di mente o persone sole, Dennis Clegg – soprannominato fin da piccolo Spider dalla madre per la sua capacità di costruire raffinate ragnatele di corda nella sua stanza/casa – rievoca la sua infanzia vissuta malamente tra devastanti complessi pseudo-edipici e un padre ubriacone, donnaiolo e violento. Dall’acclamato romanzo di Patrick McGrath (che si basò su esperienze e conoscenze anche autobiografiche: è figlio di uno psichiatra), che insieme a Cronenberg sceneggia e modifica il suo stesso testo, un film sulla schizofrenia che non riesce mai a essere veramente dolente e irrazionale come la sporca e anonima ambientazione inglese o la recitazione sottotono di Fiennes: il regista lascia a casa tutte le sue ossessioni e la sua primaria tematica del corpo per interiorizzare (troppo) il dramma personale di Spider e concentrarsi più sul dolore del ricordo che sul protagonista.
Ma tutto, dalla rappresentazione stereotipata di un padre inesistente e nocivo alla ripugnanza anche fisica della sosia della madre fino alla presenza costante ma tutto sommato immotivata di Spider nelle scene del passato, è vecchio e già visto e il fondamentale binomio letterario donna angelicata/donna vampira non regala mai riflessioni né emozioni. Da Cronenberg è possibile aspettarsi anche forti delusioni, ma raramente un film piatto e fatuo come questo: praticamente non sfruttata la metafora delle tele costruite da Spider, che in realtà è una mosca all’interno di esse e non un ragno, come simbolo del suo essere prigioniero della sua mente, vera e unica gabbia del proprio corpo. Musica di Howard Shore, fotografia “grigio-britannico” di Peter Suschitzky. DRAMM 98’ * *
Roberto Donati
Recensione n.7
Spider è la storia di Dennis, un uomo (da bambino soprannominato Spider da sua madre) che esce da un manicomio (ma la sua salute mentale è tutt’altro che ristabilita) e va a vivere in una casa che ospita altre persone che hanno avuto (e tutto sommato ancora hanno) problemi psichici. In un opprimente clima kafkiano Spider/Dennis cerca di ricostruire il suo passato e forse si prepara a completare ciò che non è riuscito a fare da bambino… ma forse è tutta una sua fantasia malata…
Il nuovo film di Cronenberg non offre appigli sicuri allo spettatore, anzi lo spiazza su più livelli. In primo luogo il regista canadese fa un film che non somiglia né al Croneneberg consueto (quello, per intenderci, di Rabid, Brood, Scanners…), né a quello un po’ più inconsueto (Crash, M. Butterfly, Il pasto nudo). Spider è infatti diverso, sia perché rinuncia all’orrore più sanguigno dei primi film, sia alle deviazioni mentali, ma comunque più corporee degli altri titoli. Questa volta l’horror risiede solo e soltanto nell’anima, nella mente di Dennis e il film propone allo spettatore il mondo oscuro così come lo vede-ricorda-immagina o forse inventa il protagonista. Per questo non è possibile appoggiarsi ad un trama sicura, perché la storia è un insieme confuso di dati che Spider offre a noi come ricordi, e questo anche quando è evidente che non può averli vissuti o visti in prima persona (per esempio l’omicidio della madre: nel flashback non è presente il piccolo Dennis, eppure l’adulto Dennis lo ricorda…).
Insomma, il film è un rompicapo, com’è un rompicapo la mente dell’uomo, disturbata da eventi probabilmente da ricondurre a brutte esperienze negli anni d’infanzia, ma di fatto difficilmente interpretabili. Negli occhi di Dennis le persone si confondo e quindi, forse, anche gli eventi, indipendentemente dal fatto che essi siano in parte veri e in parte no, del tutto reali o completamente inventati come reazione ad un’altra sconosciuta verità. Tutto questa confusione rende il film ambiguo, ma, proprio per questo, molto affascinate. Spider è infatti una lugubre esperienza unica, a cui però la maggior parte del pubblico non è purtroppo preparata (quanti i mugugni in sala!).
Chi scrive ama tutto il cinema di Cronenberg, ma predilige soprattutto i corpi estranei, come questo Spider. Una volta di più David Cronenebrg dimostra di essere due registi, con due approcci diversi nei confronti della realtà, dove la visione più interiore (qual è appunto quella di Spider e del secondo gruppo di film citati all’inizio) non significa il tradimento delle sue qualità più carnali. Basterebbe vedere il misconosciuto Crimes of the future (1970) per capire che fin dagli inizi Cronenberg non è mai stato solo il regista delle “mutazioni”, ma anche un autore legato ad atmosfere più interiori e oniriche. Spider è, appunto, soprattutto interiore ed onirico, raggelato in un clima da incubo, nel quale le case e le strade prive di persone sovrastano il protagonista, lo rendono una impotente apparizione all’interno di un quadro metafisico, un individuo che si trova circondato (come nel sogno iniziale di Il posto delle fragole di Bergman, in qualche modo citato da Cronenberg) dalla frastornante materia di cui sono fatti gli incubi.
Sergio Gatti