“City of God” ha portato il brasiliano Fernando Meirelles alla ribalta internazionale, suscitando una netta e inconciliabile divisione tra sostenitori e detrattori. C’è chi lo accusa di sfruttare a fini puramente estetici la povertà del mondo e chi si lascia rapire dalla bellezza delle immagini che produce, uscendo dalla pericolosa questione sul senso morale della rappresentazione (attenendosi unicamente a questo punto, buona parte del cinema iraniano sarebbe da considerare immorale). Nel nuovo lungometraggio, tratto dall’omonimo romanzo di John le Carré, Meirelles prova a coniugare il cinema di genere (è pur sempre un thriller) con la denuncia sociale, mettendo in scena l’assenza di scrupoli delle multinazionali farmaceutiche che utilizzano le popolazioni africane come cavie per le nuove medicine in fase di studio. La storia è condotta con mano solida, dando ai personaggi il giusto spazio e alla vicenda adeguato mordente, e se l’impianto della sceneggiatura è tradizionale (l’indagine compiuta dal protagonista lo porterà a una nuova consapevolezza), la regia esce dai canoni per imprimere dinamica e personalità alla narrazione: camera a mano, utilizzo di filtri per l’accentuazione dei colori, desaturazione della pellicola, frammentazione delle sequenze a stretto confine con il videoclip, sonorità tribali ad effetto. La tecnica, non sempre originale ma efficace, non appare gratuita perché è al servizio del racconto, che resta comunque l’obiettivo primario di Meirelles, e le tante digressioni pseudo documentaristiche concorrono alla formazione di un punto di vista. Il risultato è un ibrido che rischia di scontentare sia chi vuole solo ritmo e azione, sia chi si aspetta un approfondimento della realtà locale (la vicenda è ambientata anche nelle favelas del Kenya), ma sarebbe limitativo, e ingiusto, ridurlo a mero esercizio di stile.


Luca Baroncini de gli Spietati