Comincia come un disaster-movie anni Settanta e prosegue come un film d’avventura d’altri tempi, di quelli in cui un gruppo di malcapitati si trova a fronteggiare le meraviglie dell’ignoto. La terra non gira piu’ come dovrebbe e il cambiamento di traiettoria causa cataclismi un po’ ovunque nel mondo. Un pool di esperti di varie nazionalita’ scopre che l’unica soluzione per permettere al pianeta di riprendere a gravitare intorno al suo asse e’ raggiungere il centro della terra e provocare una immane esplosione nucleare. La trama non lascia ben sperare, ma il lungometraggio di Jon Amiel si fa apprezzare proprio per la sua rozzezza e per la disinvoltura con cui propina baggianate ammantandole di plausibilita’. Il film parte discretamente, unendo l’ineluttabile con l’epico (l’atterraggio dello Shuttle nel centro di Los Angeles e’ forse la scena piu’ divertente del film) e il ritmo procede incalzante fino all’inizio della missione per poi impantanarsi (ma non troppo) nei luoghi comuni e nelle magagne tecniche e risolversi in un frettoloso finale. Rispetto alla media dei film catastrofici c’e’ una maggiore cura per la psicologia dei personaggi, scelta forse causata da un budget limitato (almeno in confronto alle grandi produzioni hollywoodiane) che ha reso necessario contenere i costi: poche scene spettacolari e molte situazioni dialogate in cui sono i personaggi ad emergere. A tal riguardo gli effetti speciali si rivelano, chissa’ se volutamente o in modo inconsapevole, irrimediabilmente obsoleti. Gli spunti di forte impatto sarebbero parecchi: il centro di Londra invaso da uccelli, il Colosseo e l’Altare della Patria in frantumi, il Golden Gate di San Francisco fuso nella baia. Ma ogni disastro per capitale (scelta gia’ di per se’ fumettistica) ha lo stesso semplicistico iter: dettaglio su un personaggio, sospetto che qualcosa non funzioni, prima crepa nella struttura del monumento, comparse impazzite, perlopiu’ a casaccio, e cataclisma digitale a go-go. Se la parentesi londinese ha una sua efficacia grazie ad una regia movimentata ma non casuale e a qualche invenzione visiva (la telecamera a terra che riprende la stessa scena da un diverso punto di vista), l’incursione romana non lesina il trash. Fa piacere per una volta (si fa per dire) che un fatto di enorme rilevanza non accada solo entro i confini americani, in genere prima e unica preda di alieni, lucertoloni e sconquassi di ogni tipo, ma vedere gli italiani rappresentati attraverso una barista cicciona che fa un caffe’ e un gruppo di tifosi incollati al televisore durante la partita Roma-Lazio, fa davvero cadere le braccia. Mancano solo un innamorato provvisto di mandolino che fa la serenata e uno spaghetto alla pummaro’ e il quadretto da esportazione sarebbe completo. L’esplosione dell’Altare della Patria, poi, con le colonne di cartongesso in caduta libera, rievoca in modo maldestro il genere peplum e contribuisce a stendere una patina di polvere sulla pellicola. Anche le scene in computer grafica, che rappresentano il viaggio nel sottosuolo, dopo un po’ mostrano la corda e diventano ripetitive. E allora, cos’e’ che rende il film tutto sommato visibile? Beh, prima di tutto la sua onesta’ di fondo: si presenta, e alla fine conferma di essere, come un prodotto di grana grossa con il solo scopo di intrattenere; e in questo funziona, in quanto tiene saldo l’interesse, con qualche calo solo nella sbrigativa e abborracciata parte finale.
In secondo luogo la capacita’ della narrazione di non dimenticare lo spettatore: le improbabili situazioni non vengono mai risolte attraverso sofismi tecnici, ma la sceneggiatura prevede spiegazioni perlopiu’ logiche, quasi elementari; la qual cosa e’ resa plausibile dalla presenza di personaggi competenti in settori diversi che hanno bisogno di imparare in fretta l’uno dall’altro. Infine, l’elemento che salva davvero il film e’ la simpatia dell’equipaggio e del cast che lo rappresenta: Aaron Eckhart, in libera uscita dal fido Neil LaBute, e’ un eroe piu’ umano che super, che oltre a muscoli e mascella squadrata dimostra di possedere un’umanita’ in genere assente nei protagonisti a senso unico dei film d’azione, un piacevole mix di intelligenza e vulnerabilita’; Hilary Swank conferma le sue doti espressive anche recitando per quasi tutto il tempo seduta davanti a un monitor e Stanley Tucci e’ a suo agio in un personaggio “contrasto”, necessario per movimentare i caratteri del team, che esce dagli standard del “cattivo” o del “cattivo-redento” per collocarsi in una piu’ credibile e meno incasellabile via di mezzo. Divertira’ chi era bambino negli anni di piombo e i nostalgici di ogni tempo. Le nuove generazioni si annoieranno e gli altri troveranno, con incontestabili e razionali motivazioni, di che criticare.

Luca Baroncini