Recensione n.1

Il vento della Germania ha sconvolto gli Stati Uniti ancora una volta in pochi giorni. Wolfgang Petersen ha portato l’antica Grecia agli occhi degli americani con il supporto del semidio Brad Pitt, e ora Roland Emmerich, Mr. Indipendence, ha voluto ancora divertirsi con la terra a stelle e strisce, senza risparmiarsi qualche ironia fuori dagli schemi. “The day after tomorrow” è semplicemente un nuovo episodio della saga “oddio il mondo finirà”, popcorn movie perfetto nei tempi e nella durata che ha la capacità di divertire ogni tipo di pubblico, dal più esigente al più scanzonato. L’unica premessa necessaria da fare è che quello che vedrete in queste due ore non ha nulla di concettuale, politico, autoriale, ma è solo cinema con la “C” maiuscola, quello del grande schermo, degli effetti speciali, del Dolby Surround.
Un climatologo (Dennis Quaid) durante qualche sua esperienza (gli si spacca davanti agli occhi una parte della calotta polare), si convince che fra qualche anno il globo avrà qualche problema: Una nuova era glaciale. La corrente del Golfo si raffredderà per lo scioglimento dei ghiacci e lentamente la temperatura scenderà fino a diverse decine di gradi sotto lo zero. La sua previsione è sbagliata, poiché gli eventi precipitano e in qualche settimana fra tornado, grandinate e inondazioni, l’umanità dovrà affrontare una catastrofe senza precedenti. Chi gli crede? Non certo il Presidente degli Stati Uniti che si rifiuta di fare evacuare milioni di cittadini americani per le follie di uno scienziato. Il problema è che Los Angeles viene spazzata via e qualche dubbio sulle scelte prese arriva anche alla Casa Bianca. Nel frattempo il figlio del climatologo si trova con alcuni amici, prigioniero in una biblioteca della Grande Mela, e…. decide che la sua missione diventa salvare la sua prole oltre che dare una speranza al mondo.
Emmerich ha dichiarato in un’intervista che questa sua ultima opera è un film sul salvataggio, per dare ancora una speranza, a chi fa parte della famiglia (il figlio), a chi fa parte del’umanità. Lo spettatore segue la storia, sulla base di questo canovaccio assolutamente non innovativo, come d’altra parte non lo è il genere catastrofico, e il regista si diverte a rompere gli schemi e le convinzioni. Libri utilizzati per accendere un fuoco (“Fahrenheit 451”?), Whisky invecchiato per il piacere di riscaldare l’anima, profughi americani bloccati alla frontiera messicana, sono solo alcuni degli espedienti che Emmerich inserisce in qualcosa di già scritto molte volte, ma che ci attrae irrimediabilmente. L’ironia e il nostro “voyeurismo” cronico, sono i motori che ci tengono attaccati allo schermo e ci fanno sorridere o tremare, di fronte alla forza della natura, che difficilmente può essere fermata. L’importante è resistere e sopravvivere. Forse ci sarà una speranza.
“The day after tomorrow” ha diversi pregi. Prima di tutto la durata, che va appena oltra alle due ore, senza estenuare chi guarda. E poi c’è il mestiere di questo teutonico metteur en scene , dedicatosi a Hollywood oltre che per il vil denaro, anche per tentare di realizzare film per il pubblico. E ci è riuscito con grande ironia, da buon europeo nordico, permettendosi di irridere sul grande schermo la superpotenza statunitense.
Con “Indipendence day” ha tentato di eliminare l’umanità dal cielo e con “L’alba del giorno dopo”, titolo italiano, ci ha provato da terra. Cosa ci aspettiamo la prossima volta?

Mattia Nicoletti

Recensione n.2

C’e’ un filo rosso che lega tutti i film di Roland Emmerich, il regista tedesco ormai da tempo adottato dagli studios d’oltreoceano: l’alto tasso di spettacolarita’ abbinato ad una narrazione elementare. E questo nuovo giocattolone, che riprende gli antichi fasti, mai sopiti, del filone catastrofico, non fa eccezione. Da una parte, quindi, una grande cura per l’impianto scenico, con sequenze dall’impatto visivo molto forte, dall’altra personaggi scialbi e tutt’altro che memorabili impegnati in situazioni dall’esito prevedibile. Tutte le regole del genere vengono pienamente rispettate: il professore tapino e inascoltato unico conoscitore della terribile verita’, la preparazione della tragedia con una panoramica dei cinque continenti ma il solito americacentrismo di fondo (l’epicentro del disastro climatico poteva non essere New York?), un po’ di carne da macello per rimpolpare il racconto, la storiellina d’amore, qualche buon sentimento in saldo (il bambino malato terminale, il sacrificio dell’amico, il barbone pezzo di pane), e l’immancabile eroe che del pericolo se ne frega e riesce (non si capisce bene come) a farcela nonostante tutto. Le uniche varianti sono nell’ironia, mai sottile pero’, e nello sguardo “democratico” piuttosto che “repubblicano”, ma il messaggio a tutela dell’ambiente sulle conseguenze devastanti dell’effetto serra e’ facile facile e la lezioncina “no-global” incisiva come un “volemose bbene”, problematica solo in apparenza. L’ovvieta’ dei caratteri e la banalita’ degli sviluppi, pero’, non disturbano troppo. Certo, impediscono di affezionarsi ai personaggi e di trepidare con loro e per loro, ma e’ chiaro fin dall’inizio che cio’ che importa al regista e’ costruire i presupposti di una grande avventura per poi esibire, grazie ai prodigi della tecnica, cose mai viste. L’inondazione di New Yok, gli uragani sopra Los Angeles, l’arrivo di un cargo russo nel centro di Manhattan, la distruzione della scritta Hollywood, la Statua della Liberta’ sprofondata nei ghiacci, sono tra i momenti piu’ divertenti del film e soddisfano la parte bambina di ogni spettatore, quella che guarda le immagini con la pancia. Cosi’ come titilla lo spirito critico l’inversione del senso di marcia al confine con il Messico, con gli americani in cerca di ospitalita’ nelle terre da sempre bistrattate e diventate, di colpo, l’unica ancora di salvezza contro il gelo invivibile. Meno riuscito, invece, il lato umano del racconto, con intrecci affettivi di scarso interesse, personaggi incolori, gravati da dinamiche emotive stereotipate, e dialoghi da sit-com; il tutto mai troppo serioso, anzi, venato da un ottimismo forzato che smorza non poco la tensione dei momenti piu’ drammatici. Chissa’ perche’, poi, il cataclisma e’ sempre un ottimo cupido, riunisce i divorziati e fa innamorare i protagonisti che, tra l’altro, hanno anche modo di riavvicinarsi ai propri familiari. Bisogna che qualcuno glielo dica a Emmerich che e’ la quotidianita’ il vero banco di prova. E chissa’ ancora perche’ le regole del disastro non valgono per tutti allo stesso modo: se stare all’aria aperta significa congelare nel giro di pochi secondi, come mai il protagonista se ne va a spasso per trecento e passa miglia alla ricerca del figlio e non gli succede niente di niente? Ma sono dettagli, e nella grana grossa del film non c’e’ posto per le sofisticherie. Non resta quindi che godere di quel che si puo’. Non ci si annoia come in “Godzilla”, ma qualcosa di piu’ era comunque lecito aspettarselo.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.3

Ancora sono scioccato del fatto che Roland Emmerich mi abbia piacevolmente stupito con il suo ultimo lavoro, The day after tomorrow. In effetti la filmografia di questo regista tedesco d’importazione non è composta di capolavori. Anche se bisogna ammettere che Emmerich ha interpretato alla perfezione il suo ruolo di filmaker, dando senso al suo cinema solo in chiave sensazionalistica. Il suo è un cinema d’intrattenimento, puro, nel vero senso della parola. Godzilla, Indipendence day, Stargate non hanno la pretesa di essere film d’autore. Ma con The day after tomorrow, Emmerich fa un ulteriore passo in avanti, mescolando abilmente le caratteristiche che lo distinguono, con l’autoironia, spesso acuta e intelligente.
Si ipotizza dunque un cambiamento climatico tale da rimodellare la faccia della Terra, per mezzo di una neo-Era glaciale (non quella dreamworksiana!). A questa situazione generale si incastrano storie parallele, che finiranno inevitabilmente per incrociarsi. Ovvio che l’ingrediente fondamentale per questo ennesimo colosso hollywoodiano sia l’utilizzo forsennato di effetti speciali, tanto maestosi quanto perfetti nei minimi particolari. Tolti i difetti di base, inevitabili per una produzione di questi livelli, L’alba del giorno dopo (questo il titolo italiano) risulta riuscito, critico e perfino piacevole. Leggerezze e semplicismi di sceneggiatura, un finale dall’alto tasso di colesterolo, qualche ralenty di troppo, ci sembrano errori perdonabili, considerate le numerose metafore cosparse per tutta la durata del film. La sequenza, assolutamente mozzafiato, degli uragani che distruggono la scritta di Hollywood, sembra suggerirci come il cinema, arte dei concetti fatti immagine, sia stato spazzato via dalle grandi produzioni (e quindi anche da The day after tomorrow). La nave russa che gira indisturbata per le strade di New York è la parodia-dissacrazione della guerra fredda, mito di molta della politica (anche e soprattutto economica) americana. Ma il culmine lo si raggiunge quando i poveri statunitensi, orfani di una terra su cui vivere, si trovano le porte sbarrate al confine con il Messico, che le aprirà solo dopo l’annullamento del debito che aveva con gli Stati Uniti.
E tra un’onda anomala e un uragano gigante, molti sono i sorrisi involontari (?) che sputiamo verso lo schermo, disgustati o rassegnati a questo cinema. Ma va bene così, per una volta Emmerich ha colto nel segno.

Andrea Fontana