Regia di Bernardo Bertolucci
Con Michael Pitt, Louis Garrel, Eva Green.
Nazionalità: Italia
Anno: 2003
Durata: 2h e 10′
Distribuzione: Medusa
Genere: Drammatico
Recensione n.1
Un gran film è anche un’opera aperta, poco catalogabile, nella quale concetti e stili sono assimilati in modo talmente omogeneo da sfuggire all’occhio, priva com’è di quegli accenti che segnano il passo tra uno stile maturo ed uno acerbo.
Quando si assiste a sequenze colme fino all’orlo di riferimenti, citazioni, tecniche narrative e di ripresa, effusioni estetiche e quant’altro il cinema conosca, incastonate a rigorose ricostruzioni sociali e psicologiche, come se da sempre e naturalmente fossero unite in quella veste visiva, viene la sensazione che tutto sia immediato, facile, senza fatica.
Viene da pensare che il cinema sia cosa semplice.
Si dice che la grandezza di un professionista stia nel rendere facili le cose più difficili: così Bubka saltava eternità di centimetri sopra le umane possibilità con una disinvoltura sconcertante, mentre l’estrema complessità della Divina Commedia ci appare lontana e nascosta dietro la piacevolezza della narrazione, ed ancora il sorriso irripetibile della Gioconda ci sembra più una casualità uscita dal pennello di Leonardo che il frutto di interminabili tentativi e correzioni durate decenni.
Ecco allora che veder padroneggiare perfettamente il linguaggio cinematografico come accade in The dreamers è cosa rara e insieme una gioia per gli occhi.
Beninteso, non si tratta di un ammaliante esercizio di stile: Bertolucci ci riporta indietro al nucleo bollente del secolo scorso (impressiona parlare di un secolo passato, quando in fondo si tratta di poco più che trent’anni), si chiude in una casa e, ascoltando dalla finestra il fragore di un sogno che sta generando la rivoluzione, ci parla in vece di tre sognatori allo stato puro, tre asceti alla scoperta delle zone morte del proprio io, dalla sessualità alla perversione, dalle vibrazioni della mente alla loro oggettivazione nelle arti, dalla politica alla guerra: un’escursione nelle zone ideali dell’uomo, slegate dal confronto con la realtà. Nell’aria sporca e sudaticcia di quelle mura, prendono corpo immagini cinematografiche che, sotto le spoglie di citazioni, parlano dell’uomo, delle sue idee, del suo serbatoio di immagini.
Si tratta sì di una celebrazione dedicata alla settima arte, ma soprattutto di un idealismo che vede nel cinematografo il canalizzatore delle visioni e delle illuminazioni umane, quelle stesse nascoste dietro la rabbia dei proclami e delle lotte di quegli anni. In questo senso, è sbagliato dire che The dreamers ‘sfiora’ la tematica sessantottina: la racconta anzi più di altri, con una intuizione filologica suprema. Parte cioè da quel nido di pulsioni di cui le manifestazioni e le guerriglie sono solo la diretta conseguenza, dipingendocele di estetismo ed erudizione cinematografica.
Il capolavoro è allora nell’immagine finale di una Parigi che brucia di fiammelle ardenti, ma fredda, oscura: icona storica di un’epoca e sogno che crolla dalla calda bambagia alla dura e gelida realtà.
Francesco Rivelli
Recensione n.2
Difficile esprimersi su quest’ultima prova di Bernardo Bertolucci. Se da un lato colpiscono, come al solito, la bellezza formale delle immagini costruite dal regista emiliano, le capacità narrative fuori dal comune, l’abilità di fare poesia anche con gli elementi più bassi, dall’altro desta più di una perplessità la glaciale freddezza di questo nuovo Tango a Parigi. Il film sembra attraversato da un eccessivo intellettualismo, un cerebrale distacco che porta alla rarefazione delle emozioni e crea una preoccupante sensazione d’autocompiacimento. E’ una sorta di narcisismo d’autore, che raggiunge il culmine nel forsennato ed esplicito citazionismo dei grandi classici del cinema, nell’intento di rispecchiare la baldanzosa cinefilìa della Nouvelle Vague. Ma il risultato è la perdita di quel vitalismo che costituiva il nerbo del cinema di Godard e soci, quella sfrontata carica eversiva che nei cerebrali frammenti di The Dreamers appare congelata e immobile. Il rapporto incestuoso tra i due fratelli sembra il vero fulcro del film, l’elemento meglio riuscito e carico di maggiore tensione, e funzionale ad esso sembra la figura dell’americano Matthew, ben interpretato da Michael Pitt. Un rilievo: i tre attori sono tutti praticamente esordienti per ciò che concerne il grande cinema, e tutti e tre sono autori di una buona prova, confermando come Bertolucci sia un ottimo direttore d’attori e scopritore di talenti. Ben più ingarbugliato il discorso del regista emiliano sulla contestazione giovanile: tralasciando il taglio altezzoso che nuoce sicuramente all’intero discorso, ciò che non si riesce bene a comprendere è la posizione del cineasta. Se da un lato sembra emettere una sentenza drastica sugli studenti contestatori, delineando una visione “alla Pasolini” di “viziati figli di Papà” (i due fratelli, partiti i genitori bruciano rapidamente tutti gli assegni, non sono in grado nemmeno di cucinarsi qualcosa di commestibile e riempiono a stento la propria vuotaggine esistenziale), dall’altro affida con meccanismi eccessivamente didascalici la propria mediazione alle sentenze dell’americano Matthew, che, giovane e intellettuale e, soprattutto, super partes, osserva e giudica dall’esterno. Emblematica la sequenza finale, lo scontro tra gli studenti e la polizia per le strade di Parigi, a cui si uniscono anche i tre studenti. Quasi come degli automi, senza convinzioni, senza alcun processo di maturazione o consapevolezza, Julienne e Theo si lanciano nel corteo e attaccano con una molotov la polizia, mentre Matthew cerca meccanicamente di fermarli. Una sequenza visivamente di grande impatto, stupendamente stilizzata, ma incredibilmente didascalica e tronfia nei toni, quasi superba e davvero pesante nel contenuto “educativo” che la connota. Complessivamente, quindi, un film che si fa ammirare per la squisita bellezza formale (come non rimanere incantati davanti alla magistrale sequenza nella vasca da bagno e il suo straordinario gioco di specchi) e per l’abilità consumata del suo direttore, ma che rimane imprigionato nelle trame di un eccessivo intellettualismo, un po’ snob, autocompiaciuto e narcisistico. E ciononostante, ci spiace per i cultori del “neocinema” italiano, rimane comunque molte spanne sopra ai trionfatori della scorsa stagione, Ozpetek e Muccino.
E’ infine interessante notare come trent’anni fa il malcapitato Bertolucci, per Ultimo Tango a Parigi, sia stato censurato al punto da vedersi levato il diritto di voto. Oggi, The Dreamers, ricco di scene forse ben più esplicite, viene vietato ai minori di quattordici anni e non subisce tagli di censura. E questa è una buona notizia.
Simone Spoladori
Recensione n.3
Parigi, 1968: il californiano Matthew, studente di francese e accanito frequentatore della Cinémathéque di Henri Langlois, conosce Isabelle e suo fratello Theo, piuttosto strambi e come lui appassionati di cinema. Mentre all’esterno infuria la contestazione culturale, loro si rinchiudono nella casa provvisoriamente vuota dei fratelli e insc nano la loro personale rivolta. Probabilmente un progetto covato a lungo, col quale Bertolucci ha avuto modo di tornare su temi cari e su note autobiografiche. La storia dell’iniziazione sessuale/esistenziale si riverbera di accenti politici, sicuramente, ma è soprattutto il pretesto per rendere omaggio alla somma finzione del ventesimo secolo, l’arte cinematografica: attraverso il fascino che le immagini in movimento hanno sui tre protagonisti, Bertolucci parla del suo amore viscerale per il cinema e per i suoi debiti registici (Nouvelle Vague in testa: si vedano anche i cammei di Jean-Pierre Léaud e Jean-Pierre Kalfon nella parte di loro stessi), della sua nostalgia verso la Parigi culturalmente libera di quegli anni (incarnata proprio da quel Langlois destituito dal suo incarico) e verso un modo di fare cinema che non esclude la realtà ma che, bensì, è capace di trasfigurarla sempre e comunque in maniera personale e originale.
Le citazioni dirette e indirette (dal Corridoio della paura alla Garbo di La regina Cristina alla corsa all’interno del Louvre per battere il record dei protagonisti di Bande à part) servono a suggerire pittoricamente nuove emozioni e ad arricchire il testo principale di infiltrazioni culturali e storiche: la cinefilia, tuttavia, non si lascia mai prendere la mano, mentre la componente erotica piuttosto spinta sconcerterà più d’uno, ma è un necessario corollario per immergere lo spettatore nell’atmosfera liquida e torbida del tempo e del film ed è lontana anni luce da quella di Ultimo tango a Parigi. La sceneggiatura di Gilbert Adair, da un proprio romanzo, è particolarmente allusiva e ricca di spunti psicologici: nonostante tutto, si prova uno scarso coinvolgimento nonostante la materia calda, come se il tutto corresse il rischio di diventare uno stiloso esercizio di accumuli e rimandi didascalici. E se a tratti c’è il rischio della maniera e dell’artificio, i tre protagonisti, tutti semiesordienti o quasi (Louis Garrel è il figlio del regista Philippe), sono corpi, figure, proiezioni oniriche e simboli straordinari e aderiscono, spigliati nella contrapposizione dialettica e incredibilmente disinibiti, vista la loro giovane età e la loro poca esperienza professionale, nel gestire le proprie nudità, con naturale empatia al progetto di questo intimo e partecipe regista-direttore di attori. Messinscena formalmente abbagliante, con notevole uso degli spazi (esterni e soprattutto interni) e una composita colonna sonora che raccoglie le hit del periodo.
BN/COL DRAMM-SENT 130’ * * *
Roberto Donati
Recensione n.4
Un film di Bernardo Bertolucci e’ sempre un regalo prezioso: uno sguardo sul mondo, sulle pulsioni, non guastato dal giudizio; un punto di vista personale e libero da vincoli morali. Anche nel trattare il ’68 non forza personaggi e situazioni per conquistare il pubblico o esporre tesi. La prima impressione, ma il film e’ ricco di sfumature e molteplici livelli interpretativi, e’ che dietro i moti rivoluzionari di quegli anni e il fermento culturale, intellettuale e sociale, ci fosse un’identita’ vuota, pronta a riempirsi di slogan, colori e bandiere, un po’ per gioco, un po’ per moda. Cosi’, infatti, appaiono Isabelle e Theo, i due gemelli protagonisti, legati da un rapporto morboso che li porta a definirsi “siamesi nella mente”. L’elemento di contrasto, in un mondo di”sognatori” fatto di cinema e citazioni in cui trovare rifugio dalla concretezza della vita, e’ l’americano Matthew, che sperimenta con curiosita’ e senza inibizioni un rapporto a tre. Il giovane e’ l’unico che in piu’ di un’occasione prova ad uscire dal “sogno” e a porre problematiche solidefuori dal dogma e dalla pura ideologia. Piu’ che un film sul ’68, come e’ stato definito, “The dreamers” e’ un film che mostra le contraddizioni di quel periodo e alla fine risulta anch’esso contradditorio.
Pur trasmettendo lo spirito e le atmosfere di un’epoca, infatti, lascia “la strada fuori dalla casa” e si concentra sull’intimita’ dei giovani protagonisti, rubando, con l’usuale morbidezza, la fresca e ruspante gioventu’ dai corpi e dai volti. Ben dialogato, curatissimo a livello formale, il film e’ supportato dalle felici interpretazioni dei tre giovani attori: due figli d’arte (Louis Garrel e Eva Green) e un volto gia’ noto nell’underground newyorchese (Michael Pitt, un Di Caprio piu’ in carne gia’ protagonista di “Bully” di Larry Clark). Oltre a mettere a nudo pulsioni e ideologie, il film e’ un atto d’amore nei confronti del cine a.Le citazioni, oltre che esteticamente bellissime, escono dal vezzo d’autore per diventare parte integrante del racconto e spiegare, meglio delle parole, il subbuglio di quegli anni. Non a caso si dice (e il romanzo di Gilbert Adair da cui il film trae origine lo sostiene) che il ’68 sia nato a causa delle manifestazioni dei frequentatori della Cinematheque contro il licenziamento del direttore Henri Langlois. Una rivoluzione, quindi, all’inizio soprattutto cinematografica, che Bertolucci celebra rendendo vive le citazioni e trasformando il film stesso in una citazione: il rapporto tra i tre non ricorda infatti quello di Jim, Jules e Catherine in “Jules e Jim” di Truffaut? Come spesso accade nei film di Bertolucci, la spiccata sensibilita’ con cui fotografa gli incroci affettivi e carnali dei suoi personaggi non si traduce in emotivita’. C’e’ sempre una certa distanza tra lo spettatore e lo schermo, un calore intermittente che si rinfocola con la bellezza delle immagini, a volte fin troppo ricercata. Curiosita’: nel 1972, quando usci’ “Ultimo tango a Parigi”, l’Italia mando’ al rogo il film, tolse il diritto di voto al regista e ci vollero anni prima che fosse riconosciuto ufficialmente il valore dell’opera, mentre in America Bertolucci fu addirittura candidato all’Oscar. Ora, invece, “The Dreamers” esce mutilato negli Stati Uniti per evitare la terribile R di Restricted ed essere cosi’ visibile a tutti, mentre in Italia e’ prevista la distribuzione senza alcuna forma di censura preventiva. Diamine, cos’e’ successo in questi trent’anni?
Luca Baroncini de Gli Spietati