Scheda film
Regia: Zhang Yimou
Soggetto: Max Brooks
Sceneggiatura: Carlo Bernard, Doug Miro e Tony Gilroy
Fotografia: Stuart Dryburgh e Zhao Xiaoding
Montaggio: Mary Jo Markeye Craig Wood
Scenografie: John Myhre
Musiche Ramin Djawadi
USA/Cina/Hong Kong/Australia/Canada, 2016 – Fantastico – Durata: 104′
Cast: Matt Damon, Tian Jing, Pedro Pascal, Willem Dafoe, Andy Lau, Eddie Peng, Zhang Hanyu
Uscita: 23 febbraio 2017
Distribuzione: Universal Pictures
Inseguiti da una tribù ostile William Garin e Pero Tovar, mercenari di tutte le guerre, trovano rifugio nelle fortificazioni della Grande Muraglia, dove l’Ordine Senza Nome protegge il paese da una terribile minaccia. Ogni 60 anni i Taotie, voraci teratomorfi guidati dalla loro Regina, assaltano le mura allo scopo di sciamare come un’orda famelica nelle terre dell’Impero di Mezzo.
Arduo ravvisare anche le più flebili tracce del cinema di Zhang Yimou in questo The Great Wall, ipertrofica coproduzione sino-americana da 150 milioni di dollari. Tratto da un soggetto di Max Brooks, già autore di World War Z, in seguito elaborato da un terzetto di sceneggiatori americani, questo aspirante kolossal emerge come un corpo estraneo all’interno della filmografia del regista, un figliastro difforme frutto di un connubio innaturale, quello tra Hollywood e il cinema della Repubblica Popolare Cinese, realizzatosi al fine di conquistare il mercato internazionale e le platee globalizzate. Il risultato lo rende distante anche dalle opere più immediatamente esportabili di Zhang Yimou, quali Hero (2002) e La foresta dei pugnali volanti (2004), accomunandolo paradossalmente a qualcosa che con il cinema ha ben poco a che fare, ovvero con la cerimonia di inaugurazione da lui diretta per le Olimpiadi di Pechino del 2008. La logica è difatti la medesima, ovvero partire da un simbolo universalmente noto che rappresenti agli occhi del pubblico la storia e la cultura cinese, in questo caso la Grande Muraglia, per costruirci intorno, con la perizia di un consumato “metteur en scène” che si limiti a dirigere il traffico, uno spettacolo visivamente accattivante ma povero di contenuti.
Dello Zhang Yimou “regista” sopravvivono solo schegge autoreferenziali, come le vetrate policrome che riecheggiano quelle di The Flowers of War (2011) o i sontuosi cromatismi di Hero e La città proibita (2007), qui del tutto vanificati da una sceneggiatura di rara insipienza. Si dà infatti il caso che i due mercenari, il cui fine reale è quello di impossessarsi del segreto della polvere da sparo, gelosamente custodito dai cinesi, si trovino loro malgrado a dover fronteggiare la minaccia dei Taotie assieme ai difensori della Grande Muraglia, complice una sottaciuta tensione erotica tra William Garin (un inebetito Matt Damon) e l’avvenente generalessa Lin (Jing Tian), che vorrebbe mimare la reciproca, diffidente fascinazione tra Oriente e Occidente. E qui prendono la stura una sequela di banali considerazioni sulle differenze culturali, che contrappongono i valori individualistici degli occidentali a quelli collettivistici dei cinesi, condite da dialoghi ridicoli (“Siamo più simili di quanto pensassi”). L’irsuto e olezzante mercenario Matt Damon, come accadeva al personaggio interpretato da Christian Bale durante lo stupro di Nanchino, è infatti aduso a cambiare bandiera come si cambia d’abito, attento solo al proprio tornaconto personale, almeno fino a quando non verrà rieducato, con la sottigliezza di un caterpillar, ai sani valori comunitari della civiltà cinese. Difatti alla fine sceglierà la famiglia (Pero Tovar) in luogo del bieco profitto (la polvere da sparo). Bisogna inoltre aggiungere che i Taotie, demoni mitologici che non a caso simboleggiano l’avidità e la brama di consumare, avranno la loro importanza nel modificare la scala di priorità del protagonista.
Curiosamente le tesi espresse in The Great Wall coincidono con quelle del saggista politico Zhang Weiwei, il quale definisce lo Stato cinese “modello di civiltà”, richiamandosi ai valori etici confuciani, tornati ormai in auge da lungo tempo, che hanno come fondamento la famiglia. Il “sorpasso della Cina”, titolo di uno dei suoi libri più noti, sottolinea appunto come la superiorità della Repubblica Popolare sia dovuta proprio a un diffuso “sentimento di famiglia-paese (i due ideogrammi che compongono la parola Stato), il sentimento di tutto ciò che è sotto il cielo”. E l’Ordine Senza Nome, tra le cui fila si intravedono Eddie Peng e uno sprecatissimo Andy Lau, è esattamente questo, una famiglia i cui membri si fidano incondizionatamente l’uno dell’altro, legati da un profondo sentimento d’appartenenza. Si veda, a questo proposito la sequenza (anche questa molto “olimpionica”) della cerimonia funebre del generale Shao, nella quale vengono accese in suo onore centinaia di lanterne che si librano nel cielo notturno.
Apprezzabile lo zelo filologico, seppur degno di miglior causa, dimostrato nel character design dei Taotie, sul cui cranio vengono riprodotti i motivi ornamentali presenti sui vasi rituali che li rappresentano, ed anche qualche idea particolarmente delirante come il “Bungee Jumping” dei corpi di élite, che rimandano vagamente al manga “Attack on Titan”, recentemente trasposto in due live-action low-budget da Shinji Higuchi. Ma l’abuso di panoramiche a volo d’uccello e di effetti CGI zavorrano The Great Wall, trasformandolo in un fantasy alquanto generico, che sembra diretto da un Peter Jackson sinisizzato.
Zhang Yimou è stato accusato in patria di “white-washing”, ovvero di aver scelto un attore occidentale per interpretare il protagonista di The Great Wall, ma l’accusa è indubbiamente immeritata, visto che il protagonista William Garin non ha certo la statura dell’eroe salvifico e che, anzi, il colpo fatale che annienterà i Taotie sarà sferrato dalla bella Lin. Non ha scansato, però, la minaccia più terribile di tutte, quella dell'”Hollywood-washing”.
Voto: 5
Nicola Picchi