Regia di Takashi Shimizu
Sceneggiatura: Stephen Susco
Con: Sarah Micelle Gellar, Jason Behr, Clea DuVall, Bill Pullman
USA 2004 Horror, dur. 96’ min.
Recensione n.1
The grudge come (sarà) The ring 2: ovvero Hollywood non si limita a rifare pellicole straniere, addirittura chiama a dirigerle i medesimi registi dell’originale. Il pericolo che la poetica dell’autore venga snaturata indubbiamente è da mettere in conto ma, lo anticipiamo, con Shimizu ciò non è accaduto. The grudge è un prodotto tipicamente orientale, impastato delle tradizioni spiritistiche e delle ossessioni tipiche di questa nouvelle vague dell’horror asiatico principiata dal The ring di Nakata, e la presenza produttiva degli States si nota solo per la presenza della Gellar. Di più, The grudge è un film straordinario, teso, agghiacciante, con una suspance portata a livelli che raramente ci è dato modo di gustare sul grande schermo.
La trama in un horror conta poco, e dunque è sufficiente dire che il film ruota attorno a terribili spiriti nascosti in una casa dove, anni prima, avvenne un misterioso fatto di sangue. Si tratta di un film fatto quasi esclusivamente di interni, girato con uno stile sobrio, senza colori accesi ed anzi perennemente immerso nella penombra delle stanze della casa. Shimizu pedina Karen (la Gellar), affidandole il compito di guidare gli spettatori alla scoperta dei misteriosi accadimenti, metafora di un’America che a cuor leggero pensa di poter comprendere tradizioni e leggende di una terra straniera; e non è un caso che tutti i personaggi provenienti dagli Stati Uniti faranno una brutta fine (anche Karen?). E lo fa con un meccanismo della narrazione davvero efficace, utilizzando precisi salti temporali, improvvisi e disorientanti squarci nella linearità del racconto, ed addirittura sovrapponendo piani temporali differenti. Non si tratta, si badi, di un vezzo autoriale, il racconto è efficace e perfettamente comprensibile, i salti disorientano lo spettatore al preciso fine di aumentare la tensione, meglio di non farla mai scemare. Dalla prima misteriosa incursione della sfortunata collega di Karen nella soffitta degli orrori, sino all’ultima beffarda inquadratura, lo spettatore è gettato in un vortice di paura che non accenna a placarsi, novantasei minuti novantasei di pura adrenalina, privo di sangue e con pochissima violenza, senza divagazioni sentimental-erotiche (la Gellar non si spoglia, nemmeno nella sequenza della doccia ci viene mostrato il suo corpo!) se si escludono un paio di minuti di incipit necessari ad introdurre la protagonista. Impossibile segnalare le numerose sequenze memorabili, tutte al cardiopalma. Ne specificherò dunque la cifra stilistica, quella di un orrore quotidiano che si cela in luoghi apparentemente innocui. Un esempio: Karen, dopo aver assistito alla materializzazione dello spirito malvagio e terribilmente scossa dall’accaduto, prende un autobus in compagnia del fidanzato per sfuggire all’oppressione della metropoli ma, guardando fuori dal finestrino, la sua immagine riflessa si muta in quella, terrorizzante, di un fantasma.
Una tale cifra quotidiana, oltrechè una messa in scena scevra di barocchismi, priva di effetti speciali e che si avvale di una messa in scena, paradossalmente, realistica, suggeriscono una terribile verosimiglianza degli avvenimenti, decisamente rara nel genere, e tale da coinvolgere lo spettatore in un vero e proprio incubo ad occhi aperti.
Una sequenza, poi, ha un perverso gusto cinefilo: l’investigatore rivede la registrazione di una telecamera a circuito chiuso, nella quale si materializza uno spirito che attraversa il corridoio fin sotto la fonte di registrazione; all’improvviso lo schermo viene oscurato completamente, e compaiono due occhi spiritati. Memore di The ring lo spettatore non ha potuto scacciare il brivido di una improvvisa “fuoriuscita” del mostro.
Si tratta probabilmente del migliore tra gli horror asiatici giunti da noi, superiore al Ring di Verbinski e certamente ai vari Phone e The Eye. Ed ora speriamo che qualche buon“anima” distribuisca in occidente i due episodi (ebbenesì esiste già un sequel al capostipite Ju-on) originali giapponesi. VOTO: 8
Mauro Tagliabue
Recensione n.2
Finalmente, dopo tantissimo tempo…un film da paura!
Smaterializzando i vari cliche’ degli horror orientali, Shimizu, l’autore omonimo dell’originale giapponese, ne raccoglie solo gli aspetti puramente orrorifici, regalandoci un’ora e mezza di delirante follia, sulla falsariga di The Ring (ma poi neanche tanto), dove misteri, allucinazioni e apparizioni fanno bella mostra di loro, regalando a profusione colpi di scena (questi non mancano di certo!) che fanno saltare dalla sedia. A dirla tutta, la storia e’ solo un mero pretesto per mettere alla berlina un’atmosfera malata e agghiacciante e nulla piu’, ma bisogna ammettere che durante il film si fa strada una certa inquietudine che serpeggia senza sosta fino alla fine.
Il racconto misto tra realta’ e irrealta’ funziona benone e il regista riesce a tenere desta l’attenzione dello spettatore sia grazie ai colpi di scena che a una certa padronanza della telecamera/occhio che fa rivivere quasi in prima persona gli orrori presenti nella pellicola.
Insomma, diciamo che a livello strutturale e’ un pochino fiacco, ma a livello visivo centra nel segno, ed e’ difficile uscire di sala senza sdrammatizzare un po’ la cosa… Buoni gli interpreti, anche se non eccezionali, forse snaturati dal doppiaggio non sempre all’altezza. Sam Raimi produce, suo fratello ha una piccola parte, e chissa’ che un giorno non tornino anche loro alle proprie radici… Voto: 7
The Wolf
Recensione n.3
Contro
The Grudge, ovvero il rancore. Le credenze asiatiche vogliono che il rancore covato nell’odio da una persona morta in modo tragica scateni una maledizione fatale. In questa pellicola il luogo del delitto è una casa al centro della metropoli di Tokyo, dove un padre di famiglia ha assassinato la moglie ed il figlio. Da quel giorno, chiunque metta piede nella casa è colpito dai fantasmi che lo abitano, portandoli alla morte più atroce. Originariamente un film giapponese intitolato Ju-On, Sam Raimi incaricò il regista Takashi Shimuzu di girarne il remake americano, inserendo come protagonista Sarah “Buffy” Gellar.
Così al posto delle protagoniste giapponesi ritroviamo un’americana trasferitosi a Tokyo per stare vicino al proprio fidanzato e per migliorare il proprio bagaglio lavorativo e culturale.
Tutto sembra normale finchè non si imbatte nella casa maledetta, dove è assunta come badante della signora anziana che ci abita. E da lì in poi, cominciano le fantasmagoriche visioni…
Se The Grudge si ritrovasse come prossima vittima della gang di Scary-Movie, sicuramente scapperebbero tanti rutti. Non è né per ironizzare o ridicolizzare, il fatto puro e semplice è questo: I fantasmi maledetti dell’opera di Shimuzu fanno avvertire la loro presenza sovrannaturale con dei rutti, degli specie di versi allungati di mega rutti. Forse è una cosa che mette paura in Asia, ma da noi in Occidente i teen-agers ci fanno grosse risate.
Uscito dalla sala, la più grande domanda che sorge è: Ma i momenti di panico dentro il Cinema venivano per l’audio massiccio in super dolby o perché The Grudge fa veramente paura? Mettendo un attimo da parte la prima ipotesi, proviamo a concentrarci sulla seconda: La Paura. Perché The Grudge dovrebbe far paura?
Analizzando il plot, il pubblico occidentale è sicuramente penalizzato, in quanto il film ruota sulle maledizioni e sulle credenze orientali del: “Se una persona muore covando un grande dolore, una maledizione si espanderà per il suo luogo di morte”. Ebbene, entrare in questa mentalità orientale, per un occidentale diventa impraticabile. Così si elimina automaticamente il fattore “realtà” che spesso fa la gioia dei film dell’orrore, il film di Shimuzu non riesce mai ad intrappolare la mente dello spettatore in quanto quest’ultimo ha la finzione davanti agli occhi, finzione marcatissima anche dalla messa in scena, con movimenti di cinepresa troppo preoccupati a dare un senso di pulizia registica. Se The Grudge non fa paura né per il plot né per il pseudo realismo (che infatti manca).. che a giocare con il thrilling siano i fantasmi e gli effetti speciali? Eh no, nemmeno essi, anche e soprattutto perché questi mostri sono un deja vù: la solita ombra nera che dilaga, la solita donnina anoressica con i capelli lunghissimi e gli occhi truccati come Robert Smith, e chi più ne ha ne emetta.
Così, ripensando e ripensando, arriviamo alla conclusione che The Grudge obbiettivamente non fa paura di per sé, quindi di conseguenza si torna per forza all’ipotesi numero 1 del perché quest’opera abbia donato certi momenti di panico: La solita, classicissima tecnica dell’audio che si alza improvvisamente. E funziona sempre e magnificamente, così come la regia di Shimuzu offre spesso angolature di ripresa interessanti e suggestive nella lentezza dei movimenti. Ma nonostante questo, ancora non ci stiamo né ci accontentiamo. Ormai ci siamo stancati di questa moda dei film horrror asiatici che hanno invaso l’Italia, e di certo ora non abbiamo bisogno che anche Hollywood ci si metta ricopiandoli e riproponendoceli con gli stessi cliché, non tanto perché odiamo l’horror asiatico, ma perché sappiamo che tale continente ha da offrire, cinematograficamente parlando, molto ma molto di più di un qualsiasi Ringu (Ring) o Ju-On (Grudge).
Pierre Hombrebueno
Recensione n.4
“LOST IN TRANSLATION”
La moda non si ferma e l’oriente continua a ispirare Hollywood, in evidente crisi creativa. In principio fu “The Ring”, prima diretto con grande successo da Hideo Nakata in Giappone e poi esportato nel mondo da Gore Verbinski. A settembre tocchera’ a “Dark Water”, in cui ancora Hideo Nakata verra’ nuovamente occidentalizzato, questa volta da Walter Salles con la complicita’ di Jennifer Connelly (si prevedono sbadigli a profusione). Ora e’ invece il momento di “The Grudge”. Con una novita’: e’ lo stesso Takashi Shimizu dell’originale nipponico a predisporre il remake americano (era gia’ successo per il danese “Il guardiano di notte” di Ole Bornedal rinato come “Nightwatch”). Tralasciando le ormai solite questioni morali sull’arroganza delle versioni in salsa yankee (siamo sempre li’, perche’ rifare anziche’ distribuire?), bisogna riconoscere che il nuovo “The Grudge” non tradisce lo spirito del vecchio, a partire dall’ambientazione, per una volta non in un loft newyorchese con vista panoramica, ma in una livida Tokyo, perdipiu’ nella stessa lugubre casa dell’originale. Se la cornice tutto sommato non cambia, in aiuto dei “poveri” spettatori occidentali, come sempre sottovalutati, arriva, spaesata piu’ che mai, l’ammazzavampiri Sarah Michelle Gellar, in compagnia dell’insipido Jason Behr (ma i dialoghi non li aiutano). Il risultato e’ noia allo stato puro. Il problema e’ che gia’ il modello di riferimento e’ stato ampiamente sopravvalutato, ma perlomeno riusciva a destabilizzare lo spettatore calandolo in uno spazio in cui le pieghe del quotidiano si confondevano con l’irrazionale. Il derivante smarrimento produceva una strana inquietudine, a stretto confine con la paura. Nel remake tutto e’ piu’ immediato, rapido per come accade ma lentissimo negli sviluppi. C’e’ troppa fretta di arrivare al dunque senza che ci sia il tempo di stabilire un’empatia con i personaggi e non bastano uno stacco sonoro, una faccia sbilenca e un verso gutturale per reggere un’intera pellicola. E poi, non se ne puo’ proprio piu’ di cellulari sibilanti, telecamere rivelatrici e bambinetti satanici, strumenti orrorifici ormai troppo sfacciati per insinuare il brivido. Funzionano le incursioni ectoplasmiche improvvise, in cui l’inquadratura cela l’inaspettato, ma sono fotocopie sbiadite del prototipo e restano sequenze riuscite in mezzo a una storia priva di originalita’, sceneggiata senza verve e diretta con poco brio. A uscirne vincente e’ unicamente il marketing, che e’ riuscito a trasformare una minestra insipida in un dominatore del box-office, tanto che il produttore Sam Raimi (che ha decuplicato gli investimenti) ha gia’ furbamente ingaggiato stessi troupe e cast per un seguito. Buon per loro e per i loro portafogli, ma l’horror sta altrove. VOTO: 5
Luca Baroncini