Regia: Stephen Daldry
Sceneggiatura: David Hare
Fotografia: Seamus McGarvey
Musiche: Philip Glass, Michael Nyman, Stephen Warbeck
Interpreti: Nicole Kidman, Julianne Moore, Meryl Streep, Allison Janney,
Ed Harris, Claire Danes, Toni Collette, Eileen Atkins

Candidato a ben nove premi Oscar, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Cunningham, The Hours racconta la storia di tre donne, vissute in epoche lontane nel tempo, eppure accomunate da un sentimento di estraneità verso la propria vita. La celebre scrittrice Virginia Woolf (Nicole Kidman, resa pressoché irriconoscibile da una voluminosa protesi nasale), alle prese con la stesura di “Mrs. Dalloway”, si è ritirata in campagna insieme al marito alla ricerca di un’illusoria serenità. Laura Brown (una Julianne Moore, che rifà il verso a se stessa in “Lontano dal Paradiso”) è prigioniera nel ruolo di impeccabile moglie e madre anni ’50. Clarissa Vaughn (una Meryl Streep ormai in età e sovrappeso) convive con la compagna del cuore e la figlia mentre si prende cura di un amico malato terminale di Aids.
I temi del film sono essenzialmente l’omosessualità (sia essa latente o manifesta) e la rinuncia all’espressione del sé in nome di una dedizione totale agli altri, tratto comune all’esistenza di molte donne, anche oggi. La sua originalità risiede nel montaggio alternato delle tre vicende e nel ricorso al celebre romanzo che funge da trait d’union fra le stesse e le diverse epoche storiche. Il regista inglese (autore del fortunato “Billy Elliot”) ci regala alcune scene indimenticabili, una per tutte l’immaginaria inondazione della stanza d’albergo in cui Julianne Moore medita il suicidio.
Ma è soprattutto alla sublime interpretazione delle tre attrici che si deve la riuscita dell’operazione, intellettuale e commerciale al tempo stesso. Nicole Kidman è convincente nell’interpretazione della martoriata scrittrice e sacrifica alla stessa la propria bellezza. Julianne Moore è straordinaria nel rendere con impercettibili espressioni del volto le proprie tempeste interiori. Meryl Streep è sempre grande, soprattutto nella scena in cui il mondo attorno a lei sembra andare in pezzi. Una buona visione, raccomandata alle donne che amano troppo.
Mariella Minna

Tre donne, lontane nel tempo ma profondamente complici nel sentirsi inadeguate, sono le protagoniste del film di Stephen Daldry tratto dall’omonimo romanzo di Michael Cunningham. Dopo il furbo ed energico “Billy Elliot”, il regista compie un completo cambio di registro e si addentra in punta di piedi nell’atmosfera di placid disperazione in cui fa muovere le sue protagoniste. Un andamento lento, sottolineato dal crescendo musicale privo di sfogo di Philip Glass, ci trasporta nella quotidianita’ di tre donne che soffrono. Nessun rapporto causa-effetto a giustificare il dolore profondo che si respira nella pellicola, ma un male di vivere che trae forza dall’insoddisfazione di un’esistenza diversa da quella desiderata, una sensazione di disagio incolmabile che trasforma un semplice atto quotidiano in una forzatura priva di senso. Il film abbraccia tre epoche: l’Inghilterra del 1923, in cui termina i suoi giorni Virginia Woolf; gli anni cinquanta in chiave grottesca, dove Julianne Moore pare sempre piu’ “far from heaven”, e la contemporaneita’ newyorchese, con Meryl Streep alla difficile ricerca di un equilibrio tra i tanti fantasmi del passato che la assillano.
Tre donne diverse legate dalla matrice letteraria della Woolf, intenta a scrivere il romanzo “Mrs. Dalloway”, letto dalla Moore e vissuto dalla Streep. Tre volti differenti per un unico ritratto femminile fuori dal tempo e dalle convenzioni. Con un soggetto cosi’ interessante ci si aspetta un grande coinvolgimento, invece si resta abbastanza freddi e distaccati. Il compiacimento e’ una spada di Damocle che sfiora piu’ volte la narrazione, ma il regista riesce per un soffio a evitare scelte di gratuita grevita’ e a non far crogiolare i personaggi tra rimpianti e rimorsi. Nonostante la tristezza diffusa che si respira, infatti, il film oppone alla speranza una tragica lucidita’ che si rivela in qualche modo consolatoria. Una consapevolezza che si traduce in un grido di liberta’. La sobrieta’ della messa in scena e’ ravvivata da un montaggio incrociato, che affida alle immagini il compito di spiegare cio’ che le parole finirebbero per banalizzare. A risaltare sono soprattutto le sfumature interpretative degli attori (in questo Daldry si era gia’ dimostrato molto attento anche in “Billy Elliot”): Nicole Kidman non scompare dietro al naso posticcio e al trucco che la rendono quasi irriconoscibile e rivela il suo carisma senza prevaricare il personaggio; Julianne Moore ci ha ormai abituati alle lacrime e al look anni cinquanta, ma conferma il suo spessore interpretativo; come Meryl Streep, sempre capace di accendere ogni scena di cui e’ protagonista; convince anche Ed Harris, che intepreta il personaggio piu’ stereotipato (l’artistoide sieropositivo) e a rischio gigioneria, ma rie ce a non esagerare (e dopo il monumento fatto di scene madri e finta misura che si e’ costruito con “Pollock” e’ davvero un bel risultato). Ma sono al posto giusto anche Toni Collette, Jeff Bridges, John C. Reilly, Claire Danes e Miranda Richardson che in poche sequenze, e grazie a personaggi ottimamente caratterizzati, riescono a rendere incisiva la loro presenza.

Luca Baroncini