“Till armageddon no shalom, no shalom”

William Friedkin è uno di quei registi che si amano o si odiano. Difficilmente, e mai all’unanimità, è considerato un autore. Eppure è uno di quei registi che quando li vedi al cinema li riconosci subito. Questo, perché Friedkin, nella sua lunga e altalenante carriera, ha dimostrato di avere, se non uno stile, una fortissima personalità. Una di quelle che si esprimono prima di tutto in una poetica capace di ridistribuirsi omogeneamente anche attraverso il continuo travaso di generi cui Friedkin ha sottoposto il suo cinema, e poi in una tecnica consapevolmente cristallizzata nonostante l’avvicendamento oltre che di generi anche di mezzi (televisione, cinema). The Hunted, incarna proprio questo senso di continuità che suscita così spesso il cinema di Friedkin, per due motivi soprattutto: perché insieme al precedente film (Regole d’onore) forma la pariglia sulla riflessione delle conseguenze della guerra sull’uomo, con lo stesso protagonista in un ruolo simile (Tommy Lee Jones) e le medesime conclusioni; dall’altra perché ripropone i capisaldi della poetica del regista dell’Esorcista, ovvero: l’importanza fattuale del vedere per venire a capo della relatività del bene e del male, l’incapacità di prescindere comunque da un’impostazione manichea, e la necessità di schierarsi non secondo un principio etico ma vitalistico. Sarebbe inutile chiedere a Friedkin da quale parte sia schierato. La domanda non ha senso quando si professa, più che una scelta, un’adesione incondizionata: un po’ come la barzelletta del cowboy che chiede ai musicisti quale dei due generi di musica fanno: country o western? Quando sei nel Big Country o sei un cowboy o sei contro i cowboy (e sappiamo tutti che fine hanno fatto gli amerindi). Questo è Friedkin, questo è il paese che ha sempre (de)cantato dal Braccio violento della legge a The Hunted. Friedkin è un regista che rappresenta l’unica America che conosce: quella degli americani alla conquista di un territorio conteso (poliziotti che si disputano la città con la malavita, preti in lotta per il possesso di un corpo, soldati alla conquista di un territorio), e se fosse un cantante il suo paese lo suonerebbe con il country, e se gli volesse dare una personificazione, sarebbe quella del “man who comes around” di Jhonny Cash.

La teoria della relatività

E lo ha fatto con The Hunted. Un film per molti versi eccessivo e disarmonico, ma anche profondamente coerente e onesto. The Hunted è prima di tutto un film sul confronto violento: della guerra, di due uomini, di due modi di vedere. Dalla guerra, quella del Kosovo, prende le mosse: in un villaggio occupato dalle forze militari serbe, uno spietato generale ha ordinato di sterminare tutti gli albanesi, mentre un gruppo di marine americani infiltrati ha l’ordine di eliminare proprio il sadico ufficiale. La guerra per Friedkin è ancora una volta un luogo esclusivamente fisico e di dominio dello sguardo (Regole d’onore). Il marine Hallam (Del Toro) che porterà a compimento la missione, è in grado di rendersi perfettamente invisibile allo sguardo dei nemici, e di sopraffare nel corpo a corpo la propria vittima. I marine devono vedere la crudeltà del proprio nemico, e devono con cieca crudeltà porvi fine. Lo sguardo non deve allargarsi, non deve interpretare, non deve per nessuna ragione vedere oltre. I marine di Friedkin sopravvivono alla guerra solo immergendosi in quella relatività-parzialità che permette all’imperativo della vita di assorbire le contraddizioni. Ma soprattutto l’impostazione manichea serve a Friedkin per ribadire che ogni tentativo di mediazione (presa di coscienza) è destinato a portare una tragica e inutile guerra interiore (la follia individuale di The Hunted e la contestazione civile di Regole d’onore). Per questo motivo Hallam è destinato ad impazzire. Il suo sguardo si è lasciato penetrare (impressionare come una pellicola) dall’orrore della guerra, e si è rivelato ormai incapace di guidarlo in tempo di pace e nei luoghi della civiltà. Il marine perfetto a cui tutta l’America rende onore e riconoscimento (la medaglia al valore di Hallam), ha rifiutato di accettare la propria relatività, ed una volta reintrodotto nel tessuto civile americano è rimasto una micidiale macchina da guerra.

Apologia all’arma bianca

A questo punto prende il via il confronto all’ultimo sangue tra Hallam e il suo ex-istruttore L. T. Bohnam (Lee Jones), incaricato di scovarlo e neutralizzarlo una volta per tutte. Lo scenario bellico è sostituito dallo scenario naturale (il groviglio del bosco) e urbano (il groviglio della città). Ma l’impostazione rimane invariabilmente la stessa: da una parte il buono dall’altra il cattivo. E il principio secondo cui viene attribuita la vittoria è sempre la capacità di scrutare il campo di battaglia nella direzione giusta: per dominare il nemico con uno sguardo in grado di scovarlo e anticiparlo senza esitazione, e senza cadere nelle trappole di cui è disseminato il sentiero. Trappole che possono essere ideologiche oltre che materiali. Il principio che segue Bohnam, infatti, non ha nulla a che vedere con i metodi dell’Fbi e della polizia (incarnate dalla facilità con cui la donna poliziotto ricorre alla superiorità numerica e tecnologica). Lo scontro deve essere perseguito attraverso una sincera (e visibile) simbiosi con la natura dell’ambiente circostante, e attraverso una profonda (e cieca) comprensione della prospettiva in cui si è inseriti, e verso cui si deve necessariamente tendere (l’ammissione della giustizia inevitabile di un mandato superiore, come fede). Ma soprattutto lo scontro deve essere onorevole. E l’unico scontro onorevole per un guerriero è la manualità dell’arma bianca (il mestiere delle armi lo definirebbe Olmi). Lo scontro deve essere uomo contro uomo, senza la disonorevole distanza delle armi da fuoco. E per questo Friedkin considera la guerra un genere maschile (e misogino). La capacità di penetrazione dello sguardo dell’uomo si somma alla prontezza muscolare dello scontro fisico. All’interno di queste coordinate, che non prevedono nessuna considerazione morale, Friedkin ci racconta ancora una volta una lotta selvaggia tra uomini all’interno di un territorio.

Isacco deve morire

Bohnam con la sua scelta ambientalista (il suo ritiro nei boschi), e la giustificazione della sola lotta per la sopravvivenza (l’odio per i bracconieri), non può condividere i metodi e i modi di vivere della civiltà. In un certo senso Bohnam è la versione di Hallam che si è imposta un auto esilio, ed ha sostituito le logiche della guerra e della civiltà, con una totale adesione allo spirito della natura selvaggia (il lupo bianco). È un uomo che sa riconoscere le conseguenze delle azioni degli uomini come le impronte che essi lasciano sul terreno. Ed Hallam è anche una conseguenza del suo addestramento. Per questo lo scontro dovrà risolversi tra loro senza nessuna interferenza esterna. Bohnam novello Abramo è stato chiamato a sacrificare il suo stesso figlio per una verità superiore. E come Abramo, utilizza un coltello, e questa volta fino in fondo.

Niente di nuovo

Friedkin è innamorato della sua poetica che qui come altrove è sempre splendidamente semplice e coerente. The Hunted ha però il difetto di reggersi di più sulla poetica del regista che sulla forza della storia. E in definitiva, mentre a livello di temi e tecnica Friedkin non aggiunge nulla di nuovo rispetto al suo repertorio, e anzi sembra ripetere già tutto quello che aveva detto con Regole d’onore, la storia è tra le più trite (Rambo), e soprattutto è scritta male, non riuscendo mai a coniugare perfettamente le scene d’azione dei due protagonisti (ben dirette), con il contesto delle indagini e i personaggi secondari (male definiti). Rimane un film che ha qualcosa da dire, ma non riesce ad organizzarsi in discorso: questa volta Friedkin è troppo innamorato dei suoi temi per esprimerli con chiarezza.
VOTO: 6 ½

Massimiliano Troni da “Gli Spietati”