Scheda film

Regia: Phyllida Lloyd
Soggetto e Sceneggiatura: Abi Morgan
Fotografia: Elliot Davis
Montaggio: Justine Wright
Scenografie: Simon Elliott
Costumi: Consolata Boyle
Musiche: Thomas Newman
G.B./Francia, 2011 – Commedia/Biografico – Durata: 104′
Cast: Meryl Streep, Jim Broadbent, Richard E. Grant, Susan Brown, Alice da Cunha, Phoebe Waller-Bridge, Iain Glen
Uscita: 27 gennaio 2012
Distribuzione: BIM

 Margaret mia!

Portare sullo schermo un personaggio ancora vivente come Margaret Thatcher, già Margaret Roberts, la “lady di ferro”, come la chiamavano i comunisti sovietici, primo primo ministro donna britannico, in carica dal 1979 al 1990, non è certo impresa facile.
Phyllida Lloyd, la regista di Mamma mia! lo fa con l’insostituibile collaborazione dell’attrice del precedente film, l’inossidabile Meryl Streep, il cui astro, compresa appunto la pellicola tratta dal musical degli Abba, stava cominciando ad appannarsi.
Con un classico espediente drammaturgico, proprio per prendere le distanze dalla statista inglese, ancora vivente, la storia parte dal presente, in cui un’offuscata Margaret, piegata dal peso degli anni, battibecca ancora il marito Denis (Jim Broadbent) morto da anni, per poi dare il via al mare dei ricordi, che partono da lei ragazza durante la Seconda Guerra Mondiale fino all’ingresso in politica ed alla fatidica candidatura, portata avanti più per dare una scossa al suo partito che per reale convinzione. Successi ed insuccessi elettorali, mosse azzeccate e passi falsi, intrighi di partito spesso sottovalutati se non addirittura ignorati si susseguono come fantasmi nella testa di una donna non più del tutto lucida, che ancora, malgrado l’età, non sembra aver fatto tutti i conti col proprio passato.
L’idea di un film sulla coriacea ed ancora controversa signora Thatcher, il primo ministro più celebre in Gran Bretagna dopo Winston Churchill fu proposto all’inglese Phyllida Lloyd dalla Pathé e dalla sceneggiatrice Abi Morgan un paio d’anni prima della sua realizzazione. Il problema è che la regista appare, soprattutto dopo la visione di The iron lady, quanto di meno adatto ad un’operazione del genere, in particolare dopo che ad occuparsi di questioni politiche e di potere britanniche era stato un autore come Stephen Frears in The queen, sulle reazioni della regina nell’immediato “post-Diana”.
Misurarsi con la donna che sfidò gli argentini nel 1982 per riprendersi le Falkland, che incappò nelle bombe dell’IRA negli anni di maggiore attività dell’esercito rivoluzionario (una le distrusse la camera al Grand Hotel di Brighton) e che affrontò con misure drastiche la crisi del passaggio agli anni ottanta – cosa più che mai attuale nel periodo di recessione economica mondiale che stiamo attraversando – per poi permettere al suo paese di adagiarsi nel boom economico, raccontandola sotto forma di commedia, pure amara, è una sfida interessante, ma ridurla in più punti, nei battibecchi col marito, a poco più di una puntata di Casa Vianello non è certo esaltante.
La scelta della Lloyd e della sceneggiatrice Morgan ricalca molto da vicino quella di Eastwood e Dustin Lance Black in J. Edgar, ossia quella di raccontare un grosso personaggio realmente esistito privilegiandone gli aspetti privati, incasellando in questi quelli storici, col rischio però che la sua reale statura o essenza ne resti soffocata.
Il film vale la visione e raggiunge la sufficienza solo per l’interpretazione “bigger than life” di Meryl Streep, il cui truccatore J. Roy Helland ha toccato vette d’iperrealismo, superando nettamente la “faccia di gomma” creata da Sian Grigg per DiCaprio.
E se sentir parlare di “medicina amara” che il paese malato deve bere per non morire o del primo ministro che non vuole dimettersi poiché, come rammenta, è stato eletto dal popolo ci ricorda qualcosa, l’interesse in un’opera del genere comincia a perdersi già dopo la lunga cornice iniziale degli anni dell’oblio e, quando entra in campo la vera “signora di ferro”, ancora giovane ed ambiziosa ragazza, per lo spettatore meno ben disposto potrebbe essere già tardi.

Voto: * * *

Paolo Dallimonti

 #IMG#L’anziana Margaret Thatcher…

L’anziana Margaret Thatcher, confinata nella sua casa londinese di Chester Square e affetta da demenza senile, conversa amabilmente con il marito, scomparso da otto anni. All’arrivo della figlia Carol, che la esorta a disfarsi degli effetti personali di Denis, Margaret inizia a rievocare episodi del suo passato.
E’ possibile costruire un biopic su una personalità politica di primo piano senza assumere una posizione? Apparentemente sì, a giudicare da The Iron Lady. La regista Phyllida Lloyd e la sceneggiatrice Abi Morgan (Shame) ci offrono infatti quella che si potrebbe definire, con buona pace di Mordecai Richler, “La versione di Margaret”, scegliendo di assumere la prospettiva dell’ingombrante protagonista. Ben poco viene raccontato delle controverse decisioni politiche adottate in tre mandati consecutivi, da colei che fu il più celebrato e insieme il più vituperato Primo Ministro britannico del dopoguerra. I momenti più drammatici e cruciali dei suoi 11 anni di governo (1979-90) sono relegati in filmati di repertorio, la cui unica funzione è quella di scandire cronologicamente gli eventi, ma che non chiariscono le ragioni di tanta avversione.
Eppure non si può dire che mancassero argomenti di discussione: le privatizzazioni selvagge, la chiusura di gran parte dell’industria mineraria inglese e gli scontri con il sindacato di Arthur Scargill, la brutale repressione del dissenso, la linea dura adottata verso l’IRA e la revoca dello status di prigioniero politico ai suoi militanti (ricordate Bobby Sands?), l’insensata guerra delle Falkland e l’iniqua poll-tax. E, più di tutto, una politica economica liberista, di concerto con la Reaganomics d’oltreoceano, che aumentò la disoccupazione e la diseguaglianza tra le classi sociali, i cui frutti sono ancora oggi visibili nell’instabilità economica attuale. Iniziò allora l’abbraccio fatale del Regno Unito con gli Stati Uniti e l’indiscriminato sostegno alla politica estera americana, proseguito poi immutato negli anni di governo di Tony Blair, che portò alle mistificazioni della seconda guerra del Golfo.
Ironicamente, quegli anni videro una rinascita del cinema inglese, che non era mai stato così vitale dai tempi del Free Cinema degli anni ’60. Film in chiave rigorosamente antitatcheriana, diretti da registi quali Mike Leigh, Ken Loach, Stephen Frears e Richard Eyre, che diedero nuovo lustro a una cinematografia ormai in declino. Neanche la scena musicale inglese fu da meno; i “The Specials” rispolverarono per l’occasione la dylaniana “Maggie’s Farm”, mentre gli Smiths e Morrissey scrissero “Margaret On The Guillotine”.
Di carne al fuoco ce n’era insomma a sufficienza, ma The Iron Lady preferisce evitare polemiche, accentrando l’attenzione sulla Thatcher privata, sull’essere umano e non sull’animale politico. Quello che resta dopo tante amputazioni, è un biopic dal sapore tradizionale, con i consueti flashbacks dalla cronologia scompaginata. Se Il Discorso del Re e The Queen si focalizzavano su due episodi storici ben definiti, qui si opta per una più tradizionale panoramica a volo d’uccello. Lo spettatore assisterà così alla vicenda di un’eroina femminista della “working class”: la modesta figlia di un droghiere di Grantham la quale, contro tutte le avversità, riuscirà a farsi strada in un’ambiente maschilista e classista fino ad ascendere alla guida del Partito Conservatore, e poi alla carica di Primo Ministro. Nonostante la protagonista spieghi, in una scena chiave, che per lei le idee sono più importanti dei sentimenti, tali “idee” e la loro messa in pratica rimangono oscure a chi non sia già informato dei fatti. Nell’esposizione narrativa, carriera e matrimonio vengono prima delle decisioni politiche. Lo spettatore si trova quindi davanti all’ammirato ritratto di un’anziana signora non più in possesso delle proprie facoltà mentali, a cui non è possibile far mancare un’affettuosa solidarietà.
Regista e sceneggiatrice spiegano che The Iron Lady vuole essere un’opera di fiction (e si era capito), che anela niente meno che al “Re Lear” shakespeariano: una riflessione sulla follia, sulla vecchiaia e sulla perdita del potere. Ambizioni alte, che però andrebbero ridimensionate. Margaret Thatcher non ha la la tempra dell’eroina tragica, e non vale, in una sequenza dal kitsch insostenibile, farle abbandonare il numero 10 di Downing Street sulle note di “Casta Diva” ad elevarne la statura. Abi Morgan fa dire alla Tatcher di aver sopportato l’odio per il bene delle generazioni future, che un giorno la ringrazieranno. Ebbene, tali ringraziamenti non sembrano essere pervenuti.
The Iron Lady è interamente fagocitato dalla mostruosa bravura, dalla classe e dal carisma di una monumentale Meryl Streep, che deborda da ogni fotogramma anche sotto le pesanti acconciature di J.Roy Helland e le protesi escogitate da Mark Coullier. La sua interpretazione, giustamente premiata con un Golden Globe, costituisce infatti l’unica valida ragione per vedere il film, e probabilmente anche la motivazione principale per cui quest’ultimo è stato realizzato. La Streep coglie perfettamente l’essenza del personaggio, pur senza negarsi qualche accento impercettibilmente ironico (se non apertamente comico), nella descrizione degli anni dell’ascesa al potere. La giovane Thatcher è interpretata con severa convinzione dalla debuttante Alexandra Roach, ed ugualmente perfetti sono Jim Broadbent (Denis Tatcher), Olivia Colman (Carol) e Anthony Head (Geoffrey Howe). La fotografia di Elliot Davis, i costumi di Consolata Boyle e la scenografia di Simon Elliott utilizzano con intelligenza una palette monocromatica per le scene che si svolgono al tempo presente, rimarcando il progressivo estraniamento dalle cose del mondo dell’anziana protagonista, riservando toni più accesi per i flashback.
Non che ci si attendesse dalla regista di Mamma Mia! chissà quale rigorosa disamina del thatcherismo o una verve polemica alla Oliver Stone, ma così com’è The Iron Lady rimane un modesto biopic dalle ambizioni mal riposte, spesso irritante per il suo ostinato rifiuto ad esprimere un’opinione, illuminato da una straordinaria attrice che da sola vale il prezzo del biglietto.

Voto: * * *¼

Nicola Picchi