di Joel ed Ethan Coen
con Tom Hanks, Irma Hall, Marlon Wayans, Ryan Hurst, Stephen Root, Tzi Ma – USA, 2004 (durata 1 ora 44 minuti)
Recensione n.1
Il sedicente Professor Goldthwait Higginson Dorr, III (Tom Hanks), presunto sofisticato cultore di lettere e musica classica, mette insieme una sgangherata banda del buco ai danni del locale casino’, usando come base operativa e di partenza la cantina di Mrs. Munson (Irma Hall) un’anziana vedova di colore, devota battista. Malgrado l’inadeguatezza del gruppo tutto fila liscio fino a quando si rende necessario l’omicidio della donna per portare a termine il colpo.
Affiancato da un ottimo cast (Irma Hall in testa), Tom Hanks e’ semplicemente perfetto. Anche se bisogna ammetterlo: riuscirebbe a tirare fuori una grande interpretazione anche dalla lista della spesa. In questa commedia semi-seria abbandona i temi sociali e di rapporti famigliari per cimentarsi in un film moraleggiante e moralista, che pero’ offre uno spaccato azzeccato della Bible belt, tra gospel ed hip-hop (o “hippity-hoppity”, come lo chiama con disprezzo Mrs Munson), e che sfrutta sino in fondo una serie di cliche’ senza tuttavia mai diventare noioso grazie ad una buona dose di umorismo sapientemente calibrato. The Ladykillers e’ un remake, l’originale e’ del 1955 (di Alexander Mackendrick con Alex Guinnes, UK) e il materiale di partenza potrebbe aver condizionato l’approccio narrativo (andrebbe visto). La trasposizione nel cuore del Mid-South, in nord Mississippi, e’ convincente e ne risulta un film ben fatto senza aggrovigliarsi in velleita’ introspettive: la regia dei fratelli Coen e’ spesso accattivante (bellissime le riprese della partita di football), cosiccome ammiccanti sono i riferimenti a numerosi altri film (il ritratto che cambia espressione, la – quasi immancabile! – piuma di Forest Gump, etc.), e i richiami letterari (la passione del protagonista per Edgard Allan Poe e’ manna!).
Insomma, Ladykillers e’ un film bello e da vedere.
Mattia Bonsignori
Recensione n.2
Una cittadina di provincia nei pressi del Mississippi, profonda America: spacciandosi per musicista, il professore Goldthwait Higginson Dorr si insedia nella camera che un’anziana donna di colore, la signora Munson, ha messo in affitto. In realtà ha progettato un piano criminoso ai danni di un casinò sito in un barcone fluviale e, insieme a quattro compari, lo attuerà proprio dallo scantinato della stessa casa; ma il gruppo è male assortito, e la signora Munson si rivelerà un osso più duro del previsto… Rifacendo la celeberrima commedia inglese omonima (ma in italiano, il titolo era diventato La signora omicidi) del 1955, i fratelli Coen – da notare che per la prima volta Ethan figura esplicitamente anche alla regia – la trasportano in ambienti ed epoche a loro più congeniali pur rispettandone l’integrità di fondo: così, se lo humour nero (con molta ripetitiva volgarità) e la parodia un po’ si sfilacciano in una vicenda dal ritmo certamente non irresistibile, dall’altra parte emerge la loro consapevolezza dei generi e la consueta lucidità nel piegare gli stessi alle personali esigenze artistico-narrative. All’interno della loro filmografia, si inserisce nella sezione dei film fatti più a cuor leggero (e, forse per questo, con maggior divertimento e passione) ma, in ogni caso, la coppia riesce sempre a infondere tocchi personalissimi a vicende, personaggi, battute e accenni di critica sociale (col tema ricorrente – assente dalla prima versione – della religione e del conservatorismo puritano dell’America: solo la colonna sonora è piena di musica sacra e di gospel folcloristico) non raffinatissimi né troppo coinvolgenti. La messinscena risente di una certa fretta realizzativa (è il secondo loro film nello stesso anno) e tutto sembrerebbe confermare che, in generale, la loro verve creativa si stia esaurendo o perlomeno afflosciando: ancora, tuttavia, trovate surreali e chicche d’autore non mancano, e la sequenza della morte del professore sui versi dell’amato Edgar Allan Poe è forse uno dei loro momenti di cinema più belli. Il cast è ottimo e ben diretto, ma Hanks è addirittura da applausi nel rifare un ruolo non facile come quello che fu di Alec Guinness: in lingua originale, si è dovuto anche inventare uno strano dialetto, impasto di cadenze del sud e di vocaboli otto-primonovecenteschi, e il doppiaggio rischia di svilire tale sforzo (anche se, per una volta è necessario dirlo, l’adattamento italiano dei dialoghi risulta superlativo). Cameo dell’amico Bruce Campbell. COMM 104’ * * ½
Roberto Donati
Recensione n.3
Mai la referenzialità narrativo-stilistica dei fratelli Coen si era spinta fino al remake: con il mediocre, almeno a nostro giudizio, Intolerable Cruelty, i temibili cineasti ci erano andati vicini, operando una trascrizione in chiave moderna e post-cinica del più classico degli schemi della commedia hollywoodiana, quello matrimoniale, attestato sin negli anni d’oro della screwball. Anche alcune precedenti prove, dall’Uomo che non c’era al Grande Lebowski guardavano ad un preciso ventaglio di modelli di riferimento, talvolta preferendone uno in particolare. Ora Joel ed Ethan, che per la prima volta co-firmano la regia di un film, prendono un classico della nera commedia britannica, The Ladykillers, da noi La Signora Omicidi, a suo tempo magistralmente interpretato da sir Alec Guinness e Peter Sellers sotto la direzione di Alexander Mackendrick, per costruirne un cinico racconto che li riporta ai fasti delle loro prove più riuscite. Come ulteriore premessa, spiace constatare che The Ladykillers, presentato a Cannes lo scorso maggio, sia stato considerato, da molte autorevoli firme critiche, come un film mediocre o minore, come la spia dell’inaridimento della vena artistica dei Coen. Qualcuno si è spinto fino ad una ritrita equazione, postulando che quando lo stile di un regista “si studia nelle università, questo automaticamente diviene troppo standardizzato e scade nella maniera”. Questo assurdo rigetto, un po’ snob e inconsistente, si scioglie, come neve al sole, davanti alla piacevolezza con cui si gusta The Ladykillers, che scorre scintillando in un magnifico cinismo dall’inizio alla fine, mescolando, come solo i Coen nella loro miglior forma sanno fare, differenti livelli ed elementi narrativi e contenutistici, con una padronanza del mezzo strabiliante. Non ce ne vogliano gli alfieri modaioli della critica da salotto, pronti a mandare in soffitta questo o quell’autore quando giungono i primi consensi di massa, ma uno dei punti di forza di quest’opera è proprio quella capacità di offrire più livelli di lettura che incontestabilmente le si deve riconoscere.
Procediamo con ordine, e diciamo subito che la prima grande differenza rispetto all’originale consiste nell’ambientazione, dal momento che i Coen scelgono il Sud degli States, sostituendo così l’Inghilterra dell’originale. Questo consente ai registi di utilizzare al meglio e con coerenza nella colonna sonora brani gospel, e buttare nel loro caleidoscopico calderone spruzzi di cinica ironia razziale e religiosa. Questi elementi ci consentono di concentrarci sul contrasto nettissimo di cui vive il film, tra la divertente e comica narrazione delle peripezie dell’improbabile banda di rapinatori (qualcuno ha avanzato dei paragoni con Criminali da Strapazzo di Woody Allen, paragoni che a noi sembrano tra i più fuorvianti possibili), comunque puntellata di geniali lampi di cattiveria gratuita e di nero cinismo (in special modo nella rappresentazione del “passato” dei componenti la banda del buco, come il brutale ma irresistibile episodio del cane Otto), e il pessimismo radicale e disincantato che è sotteso ndall’intero film ed emerge con nettezza nella desolante conclusione del film. Vediamo di tracciare le orme di questo perfetto marchingegno. In apertura una barca sul Mississipi trasporta un carico di rifiuti fino ad un’isola di essi completamente composta. Indifferente, un Gargoyle sulla cima di una Chiesa osserva, indifferente, lo scorrere lento ed inesorabile del fiume, il compiersi del destino. La sequenza di chiusura è analoga: la montagna di rifiuti, un Gargoyle imperturbabile. Solo che, in mezzo, i cinque personaggi con cui il pubblico ha familiarizzato nel corso del film sono morti, uccisi in circostanze tragicomiche e poco dignitose, uno di loro, il capo, la mente, il professor Dorr, sopravvissuto alla comica faida interna alla banda, viene ucciso proprio dal beffardo Gargoyle, che si sgretola e lo colpisce sul capo. Tutti loro cadono dal ponte sul fiume, o da lì vengono buttati, e finiscono immancabilmente sulla barca di cui sopra, insieme ai rifiuti. Là, sulla montagna di spazzatura, si confonderanno con quant’altro di inorganico e altrettanto inutile la società avrà scartato. Una logica disperata che spiazza lo spettatore, che prima viene condotto a solidarizzare con i personaggi della storia, poi li vede morire nelle maniere più improbabili, e infine viene raggelato in una folgorante rappresentazione ironica dell’inutilità del transitare al mondo, se la destinazione finale è una montagna di rifiuti. In questo senso è assai emblematico il contrasto tra l’entusiasmo dei fedeli, partecipi in Chiesa dei canti gospel (in un ritratto divertito, bonario e mai cattivo della cultura del Sud degli States) e la completa indifferenza della Provvidenza o di qualsiasi logica ad essa affine. L’unico segno di trascendenza sono gli occhi strabuzzati del ritratto del defunto marito della signora Munson, che dal salotto osserva la vicenda, e le soggettive dal quadro che i Coen ci regalano, che danno al dipinto lo spessore di un inquietante personaggio che vigila e osserva. Un film nerissimo, come il colore delle voci gospel.
Simone Spoladori
Recensione n.4
Distruzione, rielaborazione, soluzione finale. Sono questi i passi che costituiscono la maieutica filmica secondo i fratelli Coen. Ogni genere deve affrontare la regola cinematografica coeniana. Non c’è scampo. In questo processo si è creato naturalmente la poetica dei fratelli statunitensi, il tema concettuale portante del loro fare cinema. Ladykillers non fa eccezione a questo assioma, anzi s’inscrive perfettamente nei loro codici d’espressione. Con un magnifico Tom Hanks (quasi irriconoscibile), Ladykillers è popolato di personaggi usciti dal mondo de Il grande Lebowski, è divertente, acuto. È in assoluto una commedia “nera”, sia per l’uso funzionale che fa dell’ironia e del sarcasmo, che per l’utilizzo della cultura nera, che si esprime su due livelli narrativi: il primo è quello musicale, con l’uso delle splendide melodie gospel e blues. Il secondo fa capo all’attrito fra una generazione di colore ormai al tramonto, legata alle vecchie tradizioni, e quella contemporanea, caratterizzata da un uso improprio del linguaggio e della violenza (la rapina iniziale). Non è il film ad essere stupefacente. È la coerenza dei Coen.
Andrea Fontana
L’originale: La signora omicidi
GB 1955 di Alexander Mackendrick con Katie Johnson, Alec Guinness, Peter Sellers, Herbert Lom, Cecil Parker, Danny Green.
° Spacciandosi per musicisti, cinque rapinatori affittano la stanza upstairs di una tipica casetta inglese per elaborare e mettere in atto un nuovo piano: ma sono imbranatissimi e la tenutaria, una vecchietta vispa e loquace, scopre presto le loro reali intenzioni, mandando a monte i loro progetti di arricchirsi in maniera fraudolenta. Un classico delle commedie prodotte dalla britannica Ealing, giocata sull’incastro di equivoci architettati con perizia e sulla mescolanza di black humour e di parodia dei film di gangster. Il ritmo è placidamente disteso e i personaggi hanno modo di svilupparsi con coerenza e amabile dolcezza: si respira aria d’altri tempi, ma niente è datato, tanto che i fratelli Coen ne hanno compreso il potenziale comico-narrativo e ne hanno fatto un aggiornamento americano (The Ladykillers, 2004). Cast perfetto, con Guinness dal sorriso subdolamente vampiresco e un Sellers agli esordi. Il titolo italiano, sia pur diventato celeberrimo, traduce alla lettera quello originale ma non ne azzecca il significato letterario né la conseguente sottile ironia (in forma gergale, ladykillers indica “gli sciupafemmine”). COMM 97’ * * *
Roberto Donati