Per la seconda volta (dopo Va’ e uccidi di John Frankenheimer), un romanzo di Richard Condon viene portato sullo schermo, e per la seconda volta ci troviamo di fronte ad un racconto inquietante messo in scena in modo impeccabile.
Se nel caso di Va’ e uccidi tutto partiva dalla guerra di Corea, qui, a fare da sfondo bellico, c’è la guerra in Kuwait. Il resto del film è la narrazione di come un reduce di quella guerra cerca di smascherare le manovre segrete di una potente multinazionale, la Manchurian, che tramite l’uso di particolari tecnologie manipola il cervello di un politico candidato vice-presidente degli Stati Uniti. L’obiettivo finale è quello di una sorta di colpo di stato “invisibile”.
A guardare questo film si ha l’impressione che la guerra fredda non sia mai del tutto terminata col crollo della maggior parte dei regimi comunisti, ma si sia trasformata in una guerra glaciale all’interno dello stesso sistema politico americano.
Come il predecessore cinematografico, e come il libro da cui entrambi i film sono tratti, anche per The Manchurian candidate s’è parlato di fantapolitica, ma ormai sempre più spesso questa parola ha significati che non coincidono solo con quelli di “genere narrativo”. Gli omicidi politici fanno ampiamente parte della storia del ‘900, le genetica manipola di tutto (quindi potrebbe manipolare davvero anche i cervelli), e il desiderio da parte del potere politico di trovare uno stratagemma per vincere a tutti i costi le elezioni è dimostrato dal caso Florida delle penultime elezioni statunitensi. Quindi il film di Demme, più che ad un film di fantapolitica, somiglia ad un esempio di fanta-Storia-romanzata, mentre la fantapolitica potrebbe diventare materia di studio in una facoltà di scienze politiche.
Jonathan Demme sfrutta una regia che governa e dosa perfettamente il senso di inquietante paura e pericolo che è il cuore della vicenda. Puntando su una ricerca espressiva che sta in perfetto equilibrio con una fascinazione visiva mai ridondante ma, anzi, costantemente efficace, Demme fa sfoggio di uno stile intrigante ed affascinante. Tanti sono gli espedienti registici che sarebbe bene sottolineare: il modo in cui si muove il candidato, spesso allucinato e immerso in una sfolgorante luce bianca che segna l’inizio delle fasi ipnotiche; l’utilizzo di una fotografia “nebbiosa” la prima volta che vediamo Ben Marco ai giorni nostri, l’insistente ricorso ai primissimi piani di personaggi che si fronteggiano nei momenti in cui lo stato ipnotico o di confusione di almeno uno dei due è lampante… Oltre a tutto questo, notevole è anche la struttura narrativa che, inserendo continuamente spicchi di verità servendosi di sogni e flashback, ricostruisce man mano i fatti senza però sminuire mai l’angoscia sempre pulsante lungo tutto il film. Anche il finale, né negativo né positivo, lascia splendidamente lo spettatore in equilibrio sull’inquietudine che genera l’impotenza umana d’innanzi alle più oscure trame della politica.
Efficaci tutti gli attori. Bravo Denzel Washington (Ben Marco) e davvero superlativi Liev Schreiber (il candidato) e Maryl Streep (senatrice e luciferina madre del candidato).
The Manchurian candidate è senz’altro uno dei più fondamentali film americani di quest’anno.
Sergio Gatti