Regia: Wim Wenders
Sceneggiatura: Wim Wenders
Direttore della Fotografia: Lisa Rinzler
Montaggio: Mathilde Bonnefoy
Produtto da: Alex Gibney
Produttori: Margaret Bodde, Blinda Clasen
Interpreti: Chris Thomas King (Blind Willie Johnson), Keith B.Brown (Skip James), James Hughes (H.C. Speirs), David Highes (Art Laibley), Shayne Tingle (Ingegnere del suono), Joy Brashears (Segretaria)
Recensione n.1
L’anima del blues
Cosa può meglio raccontare l’anima di un uomo se non il blues, una musica spirituale, trascendentale, esistenziale? E’ un film riuscito quello diretto da Wim Wenders che apre la serie dei 7 film firmati da 7 registi diversi, molto personalizzati, in onore della musica blues, un progetto ideato e prodotto dall’appassionato Martin Scorsese, dopo che il senato americano ha proclamato il 2003 anno del Blues. Difficile mettere insieme pezzi di vita di uomini così diversi e lontani nel tempo, eppure Wenders è riuscito, attraverso artifici e pretesti narrativi, a raccontare in modo lineare la vita di tre bluesmen (scelti perché a parte il mito, sono grandi passioni del regista), e creando un film che è a metà tra la fiction e il documentario. Il film si presenta infatti diviso in due parti, diverse per stile e temporalità: la prima parte, forse più monotona, è in bianco e nero e racconta alla fine degli anni ‘20 e agli inizi del ’30 la vita sfortunata di Blind Willie Johnson insieme agli esordi del secondo bluesman, Skip James. La seconda parte è invece più vivace, a colori, ambientata negli anni ‘60, e racconta insieme al ritorno sulla scena dell’ormai sessantenne Skip James, la vita del terzo mito del Blues, J.B. Lenoir. Gli sforzi del regista per dare al film uno stile documentaristico non sono pochi. Infatti, nonostante l’accordo con Scorsese di girare tutti i film della serie con la videocamera in digitale, Wenders, per raccontare i lontani anni ‘30, si serve di un mezzo diverso dal digitale (che utilizza comunque per il resto del film): una macchina da presa a manovella che risale agli anni ‘20, riuscendo così a ricreare perfettamente lo spirito di quegli anni e grazie alla sua irregolarità a dare l’illusione, nonostante si sia servito di attori, di mostrare delle immagini da repertorio. Per la vita di J.B. Lenoir, il regista è più fortunato perché può utilizzare due pellicole originali girate da due studenti cinefili ai tempi del musicista, realizzando questa volta un vero documentario in cui i filmati risultano essere la vera ossatura della seconda parte del film. Una forte attenzione allo stile quindi a cui si accompagna però anche un grande sforzo narrativo. Geniale l’idea di mettere come cornice narrativa il Voyager inviato dalla Nasa nello spazio nel ‘77 contenente i simboli del XX secolo, tra cui, per l’appunto, la canzone “The soul of man” di Blind Willie Johnson e altrettanto geniale l’idea di far fare a quest’ultimo il narratore dell’intera storia. Espedienti narrativi riusciti che rendono coeso il testo filmico, così difficile da raccontare per la diversità dei protagonisti. Diversi, ma con molte similitudini, come ha affermato lo stesso regista, visto che si tratta di persone comunque sfortunate, povere e morte senza gloria e in più accomunate dalla stessa passione per la musica blues. E’ infatti la musica in realtà ad essere la vera protagonista del film. Per questo, riescono perfettamente le interruzioni con alcuni cantanti contemporanei (tra cui un magnifico Lou Reed) che inframezzano le vite dei musicisti cantando le loro vecchie canzoni: alleggeriscono la trama narrativa, vivacizzandola, ed essendo assolutamente pertinenti. E per questo riesce altrettanto bene la trattazione dei temi cardine del Blues: l’amore di un uomo per una donna, la miseria, la fiducia in un futuro migliore, l’invocazione a Dio, e altri temi più generali che emergono da interviste e testimonianze, come il presunto conflitto tra il gospel e il blues, il sottile confine tra sacro e profano, e anche canzoni di impegno civile come la situazione della donna negli anni ‘60 e l’apartheid. Insomma, la voce calda, insieme alle note che scorrono sui tasti di un pianoforte o su corde di chitarra, ti entrano veramente nell’anima, e questo è la cosa più importante che il regista ha voluto trasmettere.
Marta Fresolone
Recensione n.2
The Blues: l’anima di un uomo, è il primo titolo di una serie di 7 film-documentari che Martin Scorsese ha deciso di produrre affidando la regia a sei suoi amici: Wim Wenders, Mike Figgis, Clint Eastwood, Charles Burnett, Lesile Harris. Il progetto nasce dalla passione di tutti i personaggi coinvolti per il blues e la loro convinzione circa l’importanza cruciale del blues nell’evoluzione artistica e spirituale i generale del nostro secolo.
Ad aprire la saga, dopo il successo di Buena Vista Social Club, è stato Wenders realizzando un docu-fiction che scava direttamente nelle radici del blues americano, raccontando la storia di tre artisti sconosciuti al grande pubblico: Blind Willie Johnson, J.B. Lenoir e Skip James.
Vi dirò subito che tecnicamente il lavoro è strepitoso, davvero incredibile. Normalmente i docu-fiction sono realizzati utilizzando materiale di repertorio che viene intercalato dinamicamente con interviste o ambientazioni girate ad hoc.
Per questo lavoro, trattandosi di artisti che iniziavano a suonare intorno alla seconda metà degli anni venti e spesso in condizioni molto poco “glamour”, Wenders non aveva a disposizione un granché come materiale su cui appoggiarsi. L’unica documento originale che ha trovato è un piccolo film girato ovviamente in super 8 da due coniugi svedesi su J.B. Lenoir. Bene, Wenders ha girato un film di quasi due ore dove è veramente difficile distinguere quel piccolo pezzo venuto fuori da uno scaffale impolverato, con la parte che invece lui ha girato per raccontare la storia completa di questi tre bluesman.
Il lavoro è realizzato in digitale ma si ha davvero l’impressione di trovarsi davanti a uno di quei “filmini” in bianco e nero degli anni 60: uguale è il passo traballante, imitata alla perfezione la luce sparacchiata e il fuoco incerto del super 8.
Un documentario rigorosamente biografico, fedele ai fatti e alle storie dei personaggi, che ti fa sprofondare nel loro mondo e nella loro musica, che però è un falso! Un falso per raccontare una verità (del tutto) passata, un falso a fin di bene, direi.
In questa ricostruzione vero/falsa sta il pregio assoluto di The blues, e la dimostrazione (semmai ce ne fosse ancora bisogno), del talento straordinario di Wenders.
Soltanto che si arriva a un punto i cui il “gioco” è un po’ troppo insistito e si sente il compiacimento divertito e solitario del suo autore. Forse era un rischio inevitabile, lo stesso Wenders ha dichiarato di subire il fascino a suo giudizio irresistibile di quei tre autori, e forse, scoperta la chiave di quel gioco di rimandi spiazzante, Wenders ha ceduto alla tentazione di mollare il racconto e di passare alla passione personale.
Rimane un lavoro eccellente, con spunti tecnici superlativi, e se avete la pazienza di una ventina di minuti che sembrano un po’ girare su se stessi, non dovete perderlo.
Andrea Scaccia
Recensione n.3
La destinazione televisiva del documentario, che va a comporre una serie sulla musica blues prodotta da Martin Scorsese, diventa prepotentemente evidente nella proiezione cinematografica dove la matrice del DV evapora in una confusa pixelizzazione, cui sfugge quindi solo la presentazione del film in 16mm dei coniugi svedesi insieme a J.B. Lenoir, che nel caso della ripresa a colori con la colonna sonora ottica esposta rasenta lo sperimentalismo grafico, sperimentalismo del resto non estraneo allo stesso Lenoir.
La forma stilematicamente più evidente nel film è la riproduzione della ripresa cinematografica del periodo muto con il suo contenuto numero di fotogrammi da esporre nell’arco del secondo, oppure con la sua impresione disomogenea o i suoi effetti di transizione realizzati con mascherini ad iride, che, nell’ipocrisia digitale, sembra ricollegare l’opera a “Lisbon Story” forse in analogia con la tonalità sentimentale del fado; però così viene tradita l’aspettativa di vedere un secondo “Buena Vista…” prima negandone il riferimento e quindi sottolineando un’intenzione narrativa.
La giustificazione narrativa struttura infatti una ridicola metafora spaziale che sarebbe più riuscita se almeno Blind fosse apparso come un novello Munchausen a cavallo del Voyager, mentre la colonna sonora rappresenta la profondità siderale con stereotipi datati di suoni elettronici su cui si scioglie la voce del narratore in una pregnanza spaziale che mette in crisi la considerazione topografica dello spazio, (ma è anche vero che il film è stato martoriato dal doppiaggio italiano).
La metafora interstellare sposta una narratività quasi brechtiana verso un’epica zoppicante della storica escatologia democratica americana tra lotte contro la segregazione razziale ed eredità culturale dell’emarginazione sociale, ma il risultato è una messa in abisso dell’inettitudine dove l’eredità appare in fine strumentalizzata e sostenuta dal mercato dell’uomo bianco, infatti solo nei primi blues elettrificati degli anni 60 appare una certa sincerità interpretativa.
Della consueta collaborazione con………………………in questo documentario si conserva l’approccio nella ricerca dell’ibridazione simulando un flusso inverso di colonialismo, in realtà è l’aspetto culturalmente più subdolo del colonialismo, perché il regista non ha cercato l’influenza sul blues di tutto ciò che gli è alieno?
Sicuramente si sarebbe allontanato molto dalla commissione però avrebbe guadagnato spessore concettuale, ma forse è anche il contesto americano che invalida il discorso dell’autore; era più chiaro il discorso europeo sulla cultura americana.
Scenicamente Wenders ha però trovato delle presenze topiche che creano un legame tra il figurativismo di Hooper e la fotografia di Newton forse, o comunque che ricorrono nell’isolamento di elementi contro le cangianti gradazioni del cielo spazzato dalle nuvole, e che sembrano caratterizzare concettualmente l’osservazione del regista sulla città; così nonostante l’assonanza con il collage sembra riemergere il concettualismo dei disegni di Klee.
In particolare voglio ricordare il quadro di transizione tra la ricostruzione storica e l’attualità dove restano compresenti due cone in un chiasmo filmico tra bianco e nero e colori, che esemplifica le intenzioni metonimiche di un discorso sulla memoria condotto bergsonianamente.
Ruggero Lancia