Scheda film
Titolo originale: Daeho
(Trad. lett.: La tigre)
Regia: Park Hong-joon
Sceneggiatura: Park Hong-joon
Fotografia: Lee Mo-gae
Montaggio: Jo Hwa-sung
Scenografie: Cho Hwa-sung
Costumi: Jo Sang-gyeong
Musiche: Jo Yeong-wook
Suono: Rob Nokes
Corea del Sud, 2015 – Drammatico – Durata: 139′
Cast: Choi Min-sik, Jung Man-sik, Kim Sang-ho, Ren Osugi, Sung Yoo-bin
Uscita nel paese d’origine: 16 dicembre 2015
Anche senza scomodare William Blake (“Tiger! Tiger! Burning bright…”) e la sua cosmogonia personale, la tigre è fortemente legata alla mitologia e in particolare ai miti fondanti della tradizione coreana. Tigri di pietra si possono trovare a guardia delle tombe reali della dinastia Joseon, e sono giunti sino a noi talismani che la raffigurano o ne riproducono graficamente il manto. Animale apotropaico e spirito guardiano, la tigre è infatti pronta a scagliarsi contro i cattivi spiriti, assicurando pace e prosperità alla comunità. Non a caso fu proprio una tigre (Hodori) la mascotte scelta dalla Corea durante le Olimpiadi del 1988.
The Tiger: An Old Hunter’s Tale di Park Hong-joon, sceneggiatore di talento e già regista dell’insolito kammerspiel The Showdown (2011) e del bellissimo New World (2013), attinge consapevolmente alla mitologia e al folklore della penisola per rinvigorire i simboli del passato, ravvivandoli con una robusta dose di nazionalismo, elemento pressoché onnipresente nelle pellicole degli ultimi anni.
La vicenda è ambientata nel 1925, negli anni della colonizzazione giapponese; il governatore nipponico è determinato a sterminare tutte le tigri del monte Jirisan (luogo sacro al pari del monte Fuji), si suppone allo scopo di demoralizzare il popolo spogliandolo di un simbolo della propria identità nazionale. La stolida tracotanza del conquistatore, però, è ben presto destinata a venir meno. Una tigre orba da un occhio, che i locali definiscono il “Dio della Montagna”, dà mostra di astuzia sovrannaturale, sfuggendo a qualsiasi battuta di caccia e menando strage di militari e di cacciatori prezzolati. Man-duk, un anziano e leggendario cacciatore che vive in una capanna isolata tra i boschi, preferisce però tenersi in disparte; dopo la tragica scomparsa della moglie, egli si è ritirato dal mondo e preferisce occuparsi unicamente del figlio appena adolescente. La ricompensa offerta dal governatore, però, fa gola a molti cacciatori compreso il giovane Seok, il quale spera di sposare la ragazza di cui è innamorato grazie alla somma promessa.
Park Hong-joon sconfina immediatamente dai territori del realismo per addentrarsi nel mito. Man-suk e la tigre sono spiriti affini, i quali condividono l’habitat naturale rispettandosi reciprocamente e comprendendosi l’un l’altro, sia pure a un livello istintuale. Dall’altra parte, invece, ci sono i cacciatori guidati da Gu-kyung, guidati dall’avidità, e gli invasori del Sol Levante, i quali intendono sconvolgere l’ordine naturale per affermare la propria supremazia razziale.
La contrapposizione non potrebbe essere più fatale dato che la tigre, “genius loci” di Jirisan e vendicatrice del popolo oppresso, sembra nutrire una particolare avversione per le divise dell’esercito imperiale, e non esita a decorare gli alberi della montagna con gli arti straziati dei malcapitati soldati, quasi fossero macabri festoni. D’altronde i giapponesi danno mostra di imperdonabile mancanza di sportività, arrivando al punto di minare la montagna per stanare la belva, giustificandone le sempre più feroci rappresaglie.
Park rifugge dagli esibizionistici piani sequenza alla Iñárritu, preferendo affidarsi al montaggio concitato di Kim Chang-gu, passando dal lirismo alla carneficina nell’arco di un battito di ciglia. Eppure, malgrado le serrate e sanguinose sequenze di caccia, ogni apparizione della tigre attiene alla sfera del sacro più che agli stereotipi del genere “animal attack”, e la sceneggiatura abbandona ben presto ogni pretesa di verosimiglianza. Mentre le pendici del Jirisan si coprono di candida neve, mutandolo in un luogo avulso dal tempo e dalla storia, la Tigre e il Cacciatore, indissolubilmente legati come in una costellazione celeste, sono destinati a consumare la loro unione sino alle estreme conseguenze.
Nel film giganteggia l’immenso Choi Min-sik il quale, dopo i fasti dell’agiografico The Admiral: Roaring Currents (2014), dà vita a un personaggio assai meno istituzionale dell’Ammiraglio Yin Sun-shin. Il suo Man-duk, scolpito nella medesima roccia della montagna eppure mobilissimo, s’impone come una delle sue migliori interpretazioni degli ultimi anni, oscurando persino la tigre co-protagonista, degnamente riprodotta in CGI. Nel cast si fanno notare un caricaturale Ren Osugi, affezionato di Miike Takashi e Kitano, e un umanissimo Kim Sang-ho (Haemoo), mentre appare assai più routinario il Gu-kyung di Jung Man-sik (Veteran).
Per la cronaca il monte Jirisan, oggi Parco Nazionale, è il luogo dove si rifugiarono i guerriglieri comunisti sudcoreani durante la guerra, vicenda narrata nel celebre Nambugun di Chung Ji-young, anche se appare lecito escludere qualsiasi riferimento.
RARISSIMO perché… troppo avventuroso per i nostri palati?
Note: il film non è MAI uscito da noi in sala.
Voto: 7
Nicola Picchi