Il Gore Verbinski che ancora non ti aspetti, dopo topolini sfrattati, avventure sulle strade messicane, “macchine del tempo”, ragazzine horror, pirati e lune di fuoco, ecco una bella sorpresa, ma poi non così tanto inattesa. Hollywood ha bisogno di rinnovare i suoi registri espressivi, quindi la vicenda di David Spritz, che conduce il meteo su una tv americana, e si trova in un punto critico della sua vita: amore, famiglia, figli, lavoro e rapporto con il padre, un americano vecchio stampo e scrittore di successo.
Un film ricco di riferimenti al nuovo cinema, che trova la sua linfa vitale nella critica al sogno americano, nei riferimenti alla globalizzazione, nei vari spunti di riflessione sociale che questo ultimo decennio ci sta offrendo, e in quella vena espressiva che è un misto di umorismo anglosassone (talvolta virato al nero) e surrealismo; registro espressivo che ha ottenuto buoni consensi di pubblico e di critica, anche in film personali e relativamente difficili per il grande pubblico, come per esempio quelli di Wes Anderson con “I Tenebaum” e “Le Avventure Acquatiche di Steve Zissou”.
Il film ci offre tante riflessioni e battute brucianti, ma anche momenti forti di emozione e commozione. Misurata ma incisiva l’interpretazione di Michael Caine nelle vesti del padre del meteorologo televisivo, che, come spesso accade, meteorologo non è quasi mai; i volti che vediamo in TV sono solo uomini del piccolo
schermo e non persone laureate in meteorologia o altro. Il film offre talvolta battute apparentemente leggere, ma dure, durissime se ci riflettete dopo. Il padre del protagonista, un uomo di valori e tutto d’un pezzo, verso la fine del film, quando suo figlio David ottiene la possibilità di condurre il meteo ad “Hallo America” (il massimo per chi fa quel lavoro) dice che guadagnerà quanto lui stesso, grande scrittore, non avrebbe mai potuto sperare: il sogno americano. Ed è questo il sogno americano?
Il lavoro che fa David, il quale di tanto in tanto viene colpito da gente che gli lancia addosso qualcosa quando lo riconosce per strada (spesso prodotti alimentari di fast food) è un tipo di lavoro che riempie gli occhi, contribuisce a saziare lo stomaco, ma non nutre, come quasi tutta la cultura tv, la cultura “fast food and take free”.
Bel film.
Consigliato.
Gino Pitaro newfilm@interfree.it
Dave Spritz si può considerare un uomo arrivato: ha un lavoro come metereologo televisivo molto ben remunerato, un padre premio Pulitzer, una moglie da cui è separato e due figli. Eppure, nonostante gli agi di una vita in discesa, il bilancio di mezza età non è positivo e pende inesorabilmente verso l’infelicità. A ben guardare, infatti, dietro l’apparenza delle tappe sociali compiute al momento giusto, non c’è un solo aspetto della sua esistenza che gli procuri reale soddisfazione. Il lavoro è un “vuoto pneumatico” per cui non sono richiesti particolari talenti, se non telegenia e capacità di muoversi con destrezza davanti a un blue- screen. La ex-moglie lo odia ed è in procinto di risposarsi, la figlia è grassa e indolente, il figlio è in cura da più psicologi, non tutti affidabili, e il padre, dalla personalità schiacciante, si scopre malato di tumore. Per Dave Spritz è arrivato il momento di reagire, di tornare a sorridere, ma la risalita, dopo anni spesi colpevolmente a porsi le domande sbagliate, non sarà facile. Le fiacche premesse di un’ennesima variante al rodato copione della “seconda opportunità”, vero e proprio chiodo fisso della cultura americana, si scontrano fortunatamente con una sceneggiatura in grado di evitare retorica e melassa. Steve Conrad imprime infatti alla narrazione un taglio tutt’altro che edificante, riuscendo anche ad evitare di crogiolarsi nella mestizia del perdente. Il protagonista vaga in un limbo di mediocrità che, pur con un filo di speranza dato dalla consapevolezza, resta tale anche dopo la parola fine. Nelle mani di Gore Verbinski, abile professionista della macchina da presa privo di un “tocco” riconoscibile, il brillante copione di Conrad si ammanta di tonalità plumbee e di una regia al servizio del racconto e degli interpreti. Determinante quindi il contributo del cast, in cui si distinguono un Michael Caine carismatico e silente e un Nicolas Cage in perfetta sintonia con l’interiorità del personaggio (basta vedere il contrasto tra lo sguardo di perenne afflizione e il gaudio simulato nelle apparizioni televisive). Efficace l’ambientazione in una Chicago invernale, idoneo contrappunto al gelo degli stati d’animo, valorizzata dalla fotografia livida di Phedon Papamichael, e perfetto il collante delle note reggae in salsa elettronica di Hans Zimmer. Per una volta la commedia ha il coraggio di essere adulta, di sporcarsi le mani toccando temi scabrosi e di cercare il sorriso, perlopiù amaro, senza sbracare nella gag fine a se stessa. Poi, alcuni passaggi sono fin troppo scoperti, come la metafora tra l’imponderabilità delle previsioni del tempo e il caos della vita; così come suona un po’ didascalico l’utilizzo ripetuto di arco e frecce per rappresentare la volontà del protagonista di ritrovare un centro. Ma sono elementi perdonabili di quello che si caratterizza come uno dei più incisivi prodotti mainstream sull’altra faccia del sogno americano, quella fatta di grigiore, ordinarietà e frustrazione. A metà strada tra il geniale sarcasmo di “Election” e i luoghi comuni con stile di “American beauty”.
Luca Baroncini de gli spietati