Scheda film

Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Scenografie: Stefania Cella
Costumi: Karen Patch
Musiche: David Byrne
Francia/Italia/Irlanda – 2011 – Drammatico – Durata: 118‘
Cast: Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten, Judd Hirsch, Kerry Condon
Uscita: 14 ottobre 2011
Distribuzione: Medusa

 Un’anima in Penn

Cheyenne (Sean Penn) è una rockstar non più giovanissima che è uscita dal giro. Ha suonato con i grandi, tra cui Mick Jagger e David Byrne (che compare in persona nel film), tant’è che la gente lo riconosce ancora per strada, suo malgrado. Nonostante continui a tenere i capelli cotonati, a coprirsi il volto di cerone, a passarsi il rossetto sulle labbra e lo smalto sulle unghie, sta attraversando un periodo di profonda noia, che scambia a tratti per depressione. Apatico e legato da trentacinque anni alla stessa donna, sua moglie (Frances McDormand), si muove su e giù per le vie di Dublino con il suo carrello della spesa, finché un giorno la morte del padre, ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento, non lo porta a New York, dove scoprirà che il genitore, ebreo, aveva intrapreso da anni la caccia ad un criminale nazista, tale Aloise Lange (Heinz Lieven). Per riscattare il rapporto paterno interrotto trent’anni prima, Cheyenne raccoglierà il testimone, avventurandosi in un’improbabile caccia all’uomo lungo gli Stati Uniti, che gli darà nuova spinta vitale…
Quale regista europeo non ha tentato l’esperienza “americana”? Tutti. A quanti è andata bene? Ben pochi.
Paolo Sorrentino, cineasta acclamato internazionalmente a Cannes con Il divo tre anni fa, dove all’ultima edizione si è aggiudicato con questa nuova opera il Premio ecumenico della Giuria, passato alquanto sotto silenzio, forse per la delusione della mancata Palma d’oro, si pone come eccezione che conferma la regola.
Scrivendo la sceneggiatura insieme ad Umberto Contarello, partendo dalla canzone omonima dei Talking Heads che canta di ritorni a casa, quasi fosse il soggetto, e dall’iniziale idea di “una caccia”, divide il film in due parti. La prima è dedicata interamente alla costruzione di Cheyenne, un personaggio raccontato come da tempo non si vedeva sul grande schermo: un uomo che a cinquant’anni suonati continua a “mascherarsi”, cercando di nascondere il senso di colpa per due suoi fan suicidatisi a causa delle sue canzoni dark, girovagando sempre con un carrello della spesa e poi con un trolley, simboli di un fardello irremovibile. La seconda è volta alla decostruzione dello stesso personaggio, portato a confrontarsi con la figura paterna, per lungo tempo ignorata, ma indimenticabile, che lo condurrà in un lungo viaggio nel cuore degli Stati Uniti, alla ricerca delle radici paterne, ma anche di se stesso. Sperso (quasi come lo stesso Sorrentino si sarà trovato) negli USA, l’ex-cantante si confronterà con vari famigliari del criminale ricercato, prima la moglie e poi la figlia, entrambe anime in crisi che lo riferiscono o morto o residente ad Hong Kong. Presentatosi come John Smith, quindi ancora una volta mascherato, benché dietro la banalità dello pseudonimo di un “Mario Rossi” qualsiasi, scoprirà nelle due donne l’importanza della famiglia, rispettivamente per eccesso e per difetto. Ed alla fine la punizione, malgrado le premesse apocalittiche, sarà solo simbolica.
Utilizzando un Sean Penn in stato di grazia, imperdibile nella versione originale, che parla con una vocina stentata ed assume posture improbabilmente rigide, insieme ad altri attori non da meno, come Frances McDormand, Judd Hirsch e Harry Dean Stanton, Sorrentino fa della regia il suo punto di forza. Tornando agli stilemi dei primi film ostenta suoi vezzi, come la bottiglia/passaggio a livello e la particolare costruzione di alcune scene, come quella dell’incontro finale col nazista Lange, girata nella scomposizione di una coazione a ripetere, mostrando ogni volta un dettaglio ulteriore, fino a svelare la presenza in stanza dello stesso Cheyenne.
This must be the place è anche un’opera sulla visione: quella filtrata “in soggettiva” dagli occhi bistrati e spesso quasi socchiusi del protagonista, quella spenta per sempre degli occhi ormai serrati del padre, che però per tutta una vita hanno fissato un obiettivo, quella infine che attinge al passato del non (più) vedente Lange, protetto da spessi occhiali scuri.
Il regista partenopeo, come ogni grande autore, fa in fondo sempre lo stesso film: il suo è un cinema di personaggi solitari ed al margine, come l’uomo in più Pisapia dell’omonimo esordio, come il Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore o il Geremia de’ Geremei de L’amico di Famiglia o ancora l’Andreotti esplorato ben oltre i trecentosessanta gradi de Il divo, come questo Cheyenne che attraversa l’intera storia, filmica e mondiale nei suoi ultimi settant’anni, arrivando a confrontarsi con l’olocausto, quasi indenne.
E nell’ultima enigmatica scena il cerchio si chiude: un Sean Penn ormai non più Cheyenne ricompare per la visibile gioia della madre dello scomparso amico Tony. Chiunque egli sia (Tony? Cheyenne? Penn?), il viaggio si è compiuto, un uomo è stato trovato ed un altro s’è ritrovato. Ed un regista s’è ancora una volta confermato un autore di razza.

Voto: * * * *

Paolo Dallimonti

 Il nuovo film di Sorrentino…

#IMG#Il nuovo film di Sorrentino, This must the place, in cui Sean Penn è il protagonista, è più divertente in inglese che in italiano. Soprattutto la voce di Penn, che l’attore cambia proprio per impersonare il protagonista, è più significativa di quella del doppiatore. A volte capita il contrario, ad esempio Eddie Murphy è più divertente con la voce di Tonino Accolla che con la sua propria e i personaggi doppiati da Ferruccio Amendola avevano, grazie alla voce del mitico doppiatore, una marcia in più. Infatti, a volte, la delusione di risentire la voce di Dustin Hoffman e di Al Pacino in originale ha accresciuto la stima per i nostri doppiatori che probabilmente sono i più bravi del mondo. In questo caso però e non solo per Sean Penn sarebbe meglio vedere il film in lingua originale. Forse perché è un film americano nella sua produzione e italiano nella sua bellezza registica. Ma i contenuti, i paesaggi, i personaggi e soprattutto lo stile narrativo appartengono ai migliori film americani. La trama è delle più curiose. Cheyenne è una pop star a riposo. Vive in una grande villa neoclassica con sua moglie, nella vita domatrice di incendi. Si annoia davanti alla televisione e va a fare la spesa in un centro commerciale vestito di nero e con il trucco in faccia come quando cantava davanti ai suoi fans. La sua è una vita sospesa, come se fosse in uno stato catatonico. Ha un’amica adolescente che si veste come lui e che ha una discreta serie di problemi familiari. Tutto sembra scivolare nello stesso modo, con una lentezza agonica, fino a quando Cheyenne riceve una chiamata dall’America. Suo padre sta morendo. Quando arriva al capezzale del genitore però è troppo tardi, quello che gli rimane sono solo i disegni che egli ha realizzato anni prima per cercare di comporre un puzzle: dove si nasconde il nazista che lo ha umiliato ad Auschwitz? Cheyenne decide di continuare questa ricerca e, partendo da pochi indizi, inizia un viaggio attraverso l’America sulle tracce dell’ufficiale nazista. Durante il viaggio Cheyenne incontrerà molte persone con le quali costruirà brevi rapporti che lasceranno un segno su di lui e sui suoi interlocutori. Il suo viaggio sembra un percorso onirico verso un risveglio poetico e traumatico, nel quale Cheyenne romperà la sua crisalide stantia per trasformarsi in un uomo libero. Il film è incentrato su Cheyenne: la sua evoluzione, il suo cambiamento ma soprattutto i delicati meccanismi della sua mente che lo portano a reagire in modo paradossale a tutto ciò che lo circonda. A volte, solo per brevi attimi, la maschera del personaggio scivola via e mostra quanto Sean Penn sia sopravvalutato come attore. Sorrentino lascia correre raggiungendo il suo scopo, quello di realizzare un film divertente e poetico.

Voto: * * * *

Fulvio Caporale