Il tema e’ la vita, in bilico tra le aspettative di felicita’ e le vie tortuose del fato. Le tredici variazioni sono i brevi capitoli in cui e’ suddiviso il film della sensibile e acuta regista Jill Sprecher, anche sceneggiatrice insieme alla sorella Karen. In mezzo, i destini incrociati di alcuni personaggi a meno di “sei gradi di separazione” l’uno dall’altro che, semplicemente, esistono. C’e’ chi e’ in profonda crisi, chi si aspetta ogni giorno un miracolo, chi e’ rampante e determinato, chi e’ logorato dall’invidia, chi riesce sempre a vedere il lato positivo delle cose. Ognuno dovra’ fare i conti con le occasioni e le sfortune snocciolate dalla vita. Ad alcuni la sorte regalera’ sorprese, ad altri opporra’ un riso beffardo e crudele. Nonostante la profonda malinconia che si respira, a cui contribuisce anche la musica per pianoforte che sottolinea l’evolversi degli eventi, il tono non e’ cupo. Sembra davvero di confrontarsi con la quotidianita’ di persone che non si conoscono, ma con cui si condividono intime vibrazioni e pensieri. Grazie ad un efficace impianto narrativo (la regista dichiara di essersi ispirata a “Rapina a mano armata” di Kubrick), le dissertazioni filosofiche a cui si abbandonano i protagonisti, non diventano mai un esercizio di stile, ma arrivano con semplicita’ allo spettatore. Il rischio “teorema” e’ dietro l’angolo, ma i personaggi sono costruiti con quel pizzico di realistica follia in grado di renderli imprevedibili e quindi veri e comunicativi.
Alcune frasi e situazioni colpiscono nel profondo e affrontano in modo diretto paure e sentimenti spesso evitati dal cinema, che predilige gli scontri forti e a tutto tondo a scapito delle mezze misure. Scopriamo cosi’, come insegna la maledizione gitana che ricorre nel film, che riuscire ad avere cio’ che vogliamo puo’ diventare la nostra maggiore sfortuna. Perche’ l’appagamento puo’ essere vissuto come rassegnazione e portare ad un’insoddisfazione senza reali motivazioni. E un biglietto vincente della lotteria puo’ nascondere molti piu’ guai che gioie. Tutto sussurrato, senza soluzioni, al di la’ della consapevolezza, vissuto dai personaggi e comunicato allo pettatore attraverso il filo rosso che, inevitabilmente, lega cio’ che si vede sullo schermo con quello che la vita ci ha insegnato. Puo’ sembrare poco, banale, gia’ visto, ma a volte e’ quasi terapeutico avere il tempo di fermarsi e pensare, senza arrivare a conclusioni per forza grevi. Anzi, senza dover necessariamente arrivare a conclusioni. Il film della Sprecher ha proprio questo pregio: racconta storie con cui potersi confrontare valorizzando, attraverso la potenza del mezzo cinematografico, i colori delle sfumature.

Luca Baroncini