USA 2002 di Paul Thomas Anderson con Adam Sandler, Emily Watson, Philip Seymour Hoffman, Luis Guzmán, Rico Bueno, Mary Lynn Rajskub.

Recensione n.1

Il signor Paul Thomas, trentenne cresciuto sotto il sole della california, è uno dei capifila della nuova generazione di registi hollywoodiani; per intenderci quella dei Nolan, dei Mann, dei Sodenbergh. Registi impregnati di cinema classico, ma allo stesso tempo capaci di riscrivere le regole del linguaggio filmico. Un occhio al passato e una mano ed un pezzo di gamba nel futuro.
Il cinema americano, almeno nelle sue espessioni piu’ innovative, diventa “cinéma stilo”, cinema d’autore. Ma è un cinema fresco e attuale, non bolso e intellettuale. E’ il cinema americano che ha digerito la lezione europea. Che diventa opera pesonale, ma che non abbandona il grande pubblico. Non è estranea a questa rivoluzione, lo sviluppo della tecnologia digitale, la cultura dei videomusicali lanciata da MTV, e quella, piu’ underground, delle videoproduzioni indipendenti e della videoart. Una rivoluzione che nel bene e nel male ha trasformato il nostro modo di percepire l’immagine e che ci ha aperto nuovi orizzonti visivi.
Anderson diventa portaparola di questo nuovo modo di porsi dietro la maccina da presa: i suoi occhi possono permettersi di seguire le sue fantasie e a noi non resta che ringraziare. Ma ora veniamo al film. Punck-Drunk Love è un film divertente e spiazzante. Molto personale. Che rivisita, attingendo largamente alla sorgente: da “Tempi moderni” di Chaplin fino a “Traffic” di Tati, il mito moderno della città disumanizzante. Città meccanica e ripetitiva. Alienante ed estranea. Ma anche una città che nasconde nicchie di felicità e di tenerezza. Un certo gusto per il surreale, ricorda i Monty Phyton, ma ancora di piu’ “Brazil” di Gilliam per il senso di oppressione che permea tutto il film. La storia è una scusa, ed infatti la trama si sfilaccia in mille sottoplots, ma senza mai scomporsi né perdere consistenza. Anderson mantiene con mestiere il capo, immergendo le sue illuminazioni visive in una favola contemporanea. Delineando spazi, colori e suoni estrae i suoi personaggi dal mondo che ha creato per farli risaltare ancora di piu’.
L’attore principale è la copia carbone del Taricone nazionale, ed è comunque azzeccatissimo come personaggio. Cosi come sono azzeccati tutti i personaggi secondari; irreali, ma profondamente umani. Stona invece la Watson, con quei suoi occhi da pesce lesso non riesce ad essere completamente credibile. Troppo rigida per un film al limite del surreale, oppure troppo presente in noi la sua interpretazione in Breaking the waves. Fatto sta che il suo personaggio non sembra cogliere l’ironia che permea tutta la narrazione. Non lo definirei un capolavoro, ma sicuramente un’opera interessate che puo’ essere letta su piu’ piani: profonda e superficiale, futile e intensa.

Giancarlo Rizza

Recensione n.2

Los Angeles: Barry Egan è un ragazzone vessato da sette sorelle che lavora in un magazzino e raccoglie budini della Healthy Choice per accumulare miglia aeree gratis. Davanti al suo ufficio, un giorno piomba un harmonium dal cielo e poco dopo, dalla strada stavolta, una donna: la sua solitudine è finita. Anderson (Palma d’oro a Cannes per la regia) ha preso spunto dalla vicenda reale di un tizio che collezionava pudding in promozione per guadagnare miglia aeree gratis per raccontare una storia d’amore in una città alienante come Los Angeles: ma il film, davvero incredibile a dirsi, è inconcepibilmente sbagliato e assolutamente senza scopo di esistere. La storia vorrebbe mescolare surrealismo, iperrealismo e il senso della casualità della vita caro al regista di Magnolia, ma tutto ciò non è nelle corde di Anderson e non c’è una scena divertente e, cosa ben più grave, nemmeno una scena azzeccata o emozionante: l’imbarazzante opera è da mani nei capelli fin dalla sua fase progettuale e sembra piuttosto “un collage di scene eliminate” (Alessandro Gori). Attori allo sbaraglio senza essere stati diretti, tempi cinematografici bellamente ignorati e ritmi fatali (l’ora e mezza non ha mordente e non passa mai), sceneggiatura (del regista) che grida vendetta al cielo, colonna sonora elettronica urticante (con canzone, He needs me, eseguita da Shelley Duvall), scelte stilistiche da paura (come gli stacchetti ipnotici multicolore con tanto di stellette romantiche) o digressioni gratuite: non si direbbe che Anderson abbia già fatto cinema – e che cinema peraltro! – e anche se tutto ciò è evidentemente voluto, è una valida e dignitosa giustificazione? E soprattutto si direbbe, invece, che Anderson non sappia cosa sia l’amore e le dinamiche della vita: il titolo sarà anche ubriaco d’amore (quello originale è un’espressione americana intraducibile che significa qualcosa come “ubriaco talmente tanto come se fosse stato preso a pugni”), ma nel film non c’è mai follia, spaesamento, brillantezza, poesia e la storia d’amore pare più un misero pretesto che un autentico e sentito movente. La tenera leggerezza e la malinconica stranezza di alcune scene (come quando Sandler si porta dietro un telefono dal filo infinito) fanno pensare a che piccolo miracolo sarebbe venuto fuori nelle mani dell’altro grande Anderson d’America (Wes Anderson); invece la poetica di questo Anderson è molto più greve e superficiale, almeno per questo genere di film: vedere l’inutilità, che finisce per diventare irritante, del linguaggio volgare o delle micro-esplosioni di violenza per capire. Anderson ha dichiarato di aver voluto fare un film con Adam Sandler, da lui reputato un genio della comicità, e di averlo pensato su misura per lui: il guaio è duplice, perchè Sandler, sin dalla prima scena, è francamente pietoso e mai convincente e perché, essendo un progetto apertamente voluto, la regressione è netta e preoccupantissima. Speriamo almeno che Anderson, stavolta, impari a conoscere i propri limiti. COMM-SENT 95’ ½

Roberto Donati

Recensione n.3

Nel nuovo film di Paul Thomas Anderson c’e’ una sequenza molto bella, ispiratrice anche del poster italiano: lui e lei, dopo varie peripezie, si incontrano finalmente alle Hawaii; la piu’ classica delle situazioni cinematografiche viene risolta facendo muovere le silouette dei protagonisti, immersi in un caotico viavai di persone anch’esse in controluce, sullo sfondo colorato e gioioso di una spiaggia. Un perfetto risultato visivo, curato con perizia tecnica fin nei minimi dettagli dal giovane regista americano, che dopo due film impegnati e lunghi (“Boogie Nights” e “Magnolia”), ha dichiarato di essersi lasciato andare a una “semplice” commedia dal piu’ ridotto minutaggio. Tanto indubbio talento, pero’, rischia di soffocare il film. L’inizio e’ spiazzante e lascia ben sperare, poi la voglia di stupire prende il sopravvento e si accompagna, con inevitabile stridore, a una narrazione prevedibile e un po’ ruffiana. La regia, da originale e innovativa, diventa quindi invadente e mai lieve, come nelle dichiarate intenzioni. In particolare si sente la mancanza di un taglio deciso da imprimere al racconto, sempre incerto tra convenzione e liberta’ creativa. E’ vero, puo’ essere bello lasciarsi andare all’irrazionalita’ di un cinema privo di tesi da esporre e lucidamente folle, avvolgente e sconvolgente al tempo stesso. Ma “Ubriaco d’amore” (terribile il titolo italiano!) resta imbrigliato in una irrisolta via di mezzo.
Non giova alla narrazione nemmeno la sottotrama pseudo thriller, con una telefonata a una “hot-line” (dopo “Girl 6” e “America oggi” c’e’ ancora qualcosa da aggiungere?) che diventa un incubo interminabile (non solo per il protagonista). Piu’ che altro un tentativo di rimpolpare in qualche modo l’esile soggetto, scelta che si rivela subito ridondante e dagli esiti prevedibili, con Philip Seymour Hoffman in veste di improbabile “cattivone”. Molto efficace, invece, lo scheletro sonoro del film (a parte una scopiazzatura, chissa’, forse voluta, del tema di Nino Rota per “Amarcord”), con un tappeto di percussioni che riesce a far entrare lo spettatore, con tensione crescente, nel grottesco universo descritto. Adam Sandler, divo in America e volto tra i tanti da noi, e’ l’interprete ideale e incarna con credibilita’ un uomo scisso tra il bisogno di esprimersi e la prigione dell’ambiente familiare, con sette terribili sorelle impiccione e castranti. Emily Watson e’ a suo agio e illumina il suo personaggio, tanto grazioso quanto inconsistente. Si sente il tentativo di svecchiare la piu’ classica storia d’amore con uno stile alternativo, ma cio’ che resta del film sono guizzi di tecnica. Non e’ poco, perche’ il film e’ interessante e, in certe soluzioni adottate dal regista, esteticamente bello e coraggioso, ma non e’ abbastanza per renderlo un prodotto in grado di sedersi sul sofa’ della memoria.

Luca Baroncini