Recensione n.1
IL TRIANGOLO NO
La casa alla fine del mondo è quella dove Bobby, Jonathan e Clare possono godersi la pace della propria serenità, isolato dalla gente, dai pregiudizi, e dalle nubi grigie. Un luogo del sogno quindi, la ricerca di quella pace spirituale che dona la stabilità.
Il film di Michael Mayer, tratto da un romanzo di Michael Cunningham (The Hours), si apre con l’introduzione del piccolo Bobby (Colin Farrel) nel mondo visto dall’occhio psichedelico del fratello maggiore, in un trip vorticoso da far spiccare il volo tra le lapidi del cimitero.
La visione che Mayer ci offre dell’adolescenza è pura tanto quanto lo sguardo degli hippy sognatori del peace & love, i chiari riferimenti sessuali non ci vengono mostrati con occhio critico o morboso, il tutto appare quasi naturale, e la visione di due 14enni che praticano carezze omosessuali non è mai stato così innocente, perchè quelle sperimentazioni non sono altro che il frutto di un grande affetto reciproco d’amicizia/amore. Persino l’adulta della situazione, Sissy Spacek, colei che dovrebbe porre i tabù ed i divieti, ci viene presentata con una grande dolcezza e tenerezza, una che si fa le canne con i propri figli.
La prima parte dell’opera potrebbe quindi definirsi estremamente buonista, estremamente hippy appunto, ma la crescita del piccolo protagonista è accompagnata da dolori e gravi perdite, prima del fratello maggiore, e successivamente dei genitori. E i problemi sono solo all’inizio, comincia infatti l’analisi da parte del regista del trio formato da Bobby, il suo migliore amico Jonathan (Dallas Roberts) e Clare (Robin Wright Penn).
Come si dice: “Il triangolo no”, Meyer focalizza su tutti i topos delle problematiche delle relazioni a 3, a cominciare dalla grande gelosia di uno dell’altro, le paranoie mentali del “Tu ami più lui che me”, ma gelosia dopo gelosia, litigio dopo litigio, a trionfare su tutto è chiaramente l’amicizia e l’amore, che abbatte tutte le barriere dell’indifferenza. Girato con estrema classicità, tra il rock di Patti Smith e di Leonard Cohen, tra morti e malattie, i protagonisti troveranno così la loro redenzione, la loro pace interiore, in un finale amaro che però non rinuncia alla speranza e all’esaltazione della virtù più grande tra tutte: L’Amore, omosessuale o eterosessuale, semplicemente amore. Una casa alla fine del mondo è un film già visto, ma sicuramente l’affetto sincero che Meyer esprime per i suoi personaggi e la sua storia, anche se più volte piatta, provocherà delle emozioni.
Pierre Hombrebueno
Recensione n.2
L’infrangersi di un libro contro il grande schermo determina sempre un impatto violento. E’ come se le settimane di lettura che hanno permesso di costruire un mondo intimo e inafferrabile, si trovassero a fronteggiare una rapida resa dei conti in cui tutto diviene sfacciatamente evidente. Succede anche con “Una casa alla fine del mondo”, bel romanzo d’esordio del celebrato Michael Cunningham e brutto film di Michael Mayer. Sceneggiato dallo stesso Cunningham il lungometraggio non puo’ che deludere chi ha amato il libro, ma difficilmente accontentera’ anche chi non deve vedersela con i fantasmi della propria immaginazione. L’aspetto piu’ rivoluzionario del romanzo e’ una narrazione in prima persona dei quattro protagonisti attraverso capitoli, intitolati con il nome del personaggio, in cui gli eventi sono filtrati da un punto di vista personale, che spiega in modo diretto stati d’animo e motivazioni. Molto difficile rendere questa molteplicita’ di sguardi al cinema, ma la scelta di attenersi solamente ai fatti si rivela fallimentare, perche’ non sono i fatti il centro del racconto. Assistiamo cosi’ ad una piatta messa in scena che snatura l’essenza letteraria. Ed e’ curioso che l’autore dello scempio sia proprio lo stesso Cunningham, che compie scelte di sceneggiatura incomprensibili: elimina interamente alcune parti, ne riporta integralmente altre e ne modifica in modo radicale altre ancora. Il risultato e’ un susseguirsi di siparietti sconclusionati in cui si arriva a scene madri senza avere minimamente avuto la possibilita’ di capirne il perche’. La sensazione, molto sconfortante, e’ di assistere al trailer di un film, in cui ci si immagina che le sequenze abbiano un prima e un dopo succosi e coinvolgenti. Cosa che, invece, non accade mai. Quanto al cast, Colin Farrell e Dallas Roberts si rivelano appropriati nel dare vita a Bobby e Jonathan, Robin Wright Penn e’ troppo bella per Clare (e poco incisiva nell’equazione interpretativa “personaggio vitale ed eccessivo = gesticolante”) e Sissy Spacek e’ per forza di cose inverosimile, nella prima parte, come madre poco piu’ che trentenne. Pessimi i costumi, che piu’ che evocare un periodo storico (il film si snoda dagli anni sessanta agli anni novanta) lo scimmiottano, dando l’idea di una sagra paesana dedicata al revival del vintage. Fin troppo azzeccata la colonna sonora, bell’involucro di una trasposizione vuota di contenuti e, purtroppo, del tutto deludente.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)