Cunicoli della memoria e cunicolari(e,forse,canicolari)dialoghi.La cadenza Lisboeta di Monteiro anima e disanima tutto il film,la sua ultima fatica.Il regista portoghese,da noi quasi sconosciuto,è una figura di vecchio nervosa e surreale,nella sua allampanatezza,con il suo cappello e il suo volto bruciato ed esotico.Ancora più surreali i dialoghi e i monologhi,incomprensibili se si guarda il film in versione originale,di questo filosofo atipico,principesco e grottesco insieme,fino alla brutalità.
Siamo,appunto,a Lisbona,dove il vecchio Joao Vuvu,alter ego del regista,vive e coltiva con inusitata vitalità gli sprazzi ingenui e consapevoli insieme di una costante osservazione di chi lo circonda.Tutti i giorni compie lo stesso percorso con l’autobus,carpendo sorrisi di ragazze o signore,pittoresche esibizioni di musici slavi,incontrando anime “gemelle”del suo passato con le quali scherza e si intrattiene,in particolare donne,per le quali il protagonista nutre una morbosa e insieme divertita ossessione.Da un lato,quindi,il lento,solare persorso dell’autobus 100 fino ai giardini pubblici sapientemente ombreggiati dalla fotografia,con la città che sfila lateralmente senza imprimersi nè impressionare.Da un altro la casa,la zona completamente oscurata che oltrepassa la luce della strada per introdursi nell’abitazion ampia,calda,minimale.Qui sfilano le comprimarie di Vuvu,contraltari del desiderio erotico e dell’irrefrenabile impulso ironico dell’uomo:donne delle pulizie aspiranti attrici,che battibeccano amorevolmente con Vuvu sulla vita,la gioventù che lo appassiona e lo distrae,semplici questioni pratiche.Ogni impulso si trasforma in scena,ogni movimento in una danza teatrale dilettantesca con cui il regista sembra voler ribadire il suo attaccamento allo stupore,la sua continua ricerca di immagini nuove,di oggetti d’arte e di venerazione che prendono forme inspiegabili,come nella scena in cui Monteiro dedica con struggimento le proprie labili energie alla pulizia del pavimento,che sembra attirarlo e racchiuderlo quando,in posizione fetale o semplicemente immobile,si accascia a terra sopraffatto.
Verso il termine del film(che,come nel pregiudizio più comune sul cinema portoghese,spesso ha diversi “punti morti” che ne allentano l’intensità e l’estetica)assistiamo a un episodio che trascina il film da un piano satirico-poetico ad uno più propriamente narrativo:il figlio di Monteiro ritorna da lui dopo anni di carcere,nella speranza di ricostruire la propria vita appoggiandosi al padre,fin troppo serafico e lieto del suo ritorno,che si ritrova a mediare la rabbia della nuora,una donna poliziotto nervosa e sensibile,con un lungo racconto epico su una storia d’amore infelice.
Nonostante la sua apparente fragilità fisica e la sua imperturbabilità psichica,Vuvu comincia a covare nella sua mente aperta e giocosa progetti schizoidi,arrivando all’estremizzazione della sua curiosità sessuale,che lo porta a contattare l’irreale e quasi spaventosa figura di una donna con peli lunghissimi che le coprono il corpo,con la quale ingaggia una pericolosa e ambigua avventura che si avvale di simbologie sceniche forti e vagamente tribali.Joao immagina e sogna,invece,la morte di lei,e il suo essere divenuto blasfemo che insidia la figura della giovane donna nella sua tomba,e nelle oscurità e negli anfratti del sogno si risveglia in ospedale ,dove comprendiamo l’assurdo modo(scelta forse discutibile) con cui l’uomo aveva scelto di morire:a causa di un enorme pene di plastica ingurgitato.Fragilizzato,sfibrato e impalpabile,il convalescente oltrepassa la sua ultima soglia,come un fantasma alleviato dalle angustie dei luoghi e delle situazioni,dalla morbosità e dalla cattiveria latente nelle cose,che si riversa nelle sue energie e nei suoi convulsi appelli alla vita.le ultimie immagini ricercano la levità,la leggerezza,e forse la rilassatezza della scena.Come in una fiaba le donne che lo hanno turbato si condensano in un’angelica,giovane madre che gli parla dall’alto di un albero,e il suo occhio rincorre la monotona natura del parco.L’occhio,che infastidendo quasi lo spettatore rimane 10 minui fisso sullo schermo,mentre scorrono le note sopranili madrigali.Un affresco forse eccessivo,essenziale e ridondante,lunghissimo,in cui le emozioni si risvegliano con violenza ma,purtroppo,il più delle volte rischiano di addormentarsi o di intraprendere pensieri esuli dal film e dalle sue dinamiche,che la maggior parte delle volte non riescono a svelare nulla al di là delle immagini e dell’ammutolimento quieto dell’atmosfera.Da vedere,ma forse meglio se in doppiaggio o con l’aiuto di sottotitoli…

Chiara F