Scheda film
Regia e Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Trovaglioli
Scenografie: Ludovico Ferrario
Costumi: Carlo Poggioli
Musiche: David Lang
Italia/Francia/Svizzera/G.B., 2015 – Drammatico – Durata: 118′
Cast: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda
Uscita: 20 maggio 2015
Distribuzione: Medusa
Il futuro è una terra straniera
Quindici minuti di applausi hanno accompagnato il post visione della premiere festivaliera in quel di Cannes di Youth – La giovinezza, l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Paolo Sorrentino. E sulla scia di questa calorosa accoglienza da parte del pubblico, ma anche di un coro di pareri discordanti che ha decretato una spaccatura tra gli addetti ai lavori, la pellicola del regista premio Oscar approda nelle sale nostrane a partire dal 20 maggio con Medusa. In tal senso, il precedente La grande bellezza aveva già visto il materializzarsi di profonde crepe all’interno della critica tricolore, miracolosamente risanate non appena la tanto detestata opera si è aggiudicata in rapida successione il Golden Globe e l’ambita statuetta come miglior film straniero. Il successo planetario ha di fatto spazzato via una larga fetta di giudizi negativi. In pochissimi, infatti, hanno mantenuto invariato il pensiero iniziale. Del resto, in Italia la coerenza è merce sempre più rara e il fatto che tantissimi abbiano deciso di rivedere la propria posizione a riguardo, salendo sul carro del vincitore, non è di certo una sorpresa. Anche nella redazione di Central do cinema si è verificata una scissione tra pro e contro, ma quantomeno è rimasta coerentemente inalterata dall’inizio alla fine, con le due fazioni che hanno mantenuto le rispettive posizioni (colui che scrive ha fatto e continua a fare parte della seconda). Inevitabile, dunque, che l’attesa nei confronti di Youth fosse altissima e che a causa sua si scatenasse ancora una volta una guerra intestina. Solo il futuro ci dirà come andrà a finire.
Il settimo film di Sorrentino, secondo in lingua inglese dopo This Must Be the Place, ci mette di fronte all’ennesima ardua e impervia montagna di domande e risposte da scalare. Ma più che a una montagna, l’esito assomiglia a una cordigliera caratterizzata da un continuo sali e scendi che costringe lo spettatore di turno a uno sforzo intellettivo ed emotivo non indifferente. Dall’accettare oppure no di compiere un simile sforzo dipende il giudizio finale di ciascuno di noi e di conseguenza il livello di gradimento.
Con Youth, l’autore porta sul grande schermo una serie di interrogativi e di riflessioni di marzulliana memoria, alla quale però fornisce delle risposte chiare e concrete, quelle che, al contrario, ne La grande bellezza erano rimaste totalmente sepolte sotto il peso di cervellotiche e irritanti elucubrazioni sul nulla, perché del nulla e della vacuità imperante si voleva parlare. Nella pluri-premiata pellicola del 2013, il vagabondare senza meta di Jep Gambardella in una sorta di road movie metropolitano tra le croci e le delizie, i vizi e le virtù, di una città senza tempo, sottoponeva lo spettatore a una fruizione pedante e logorroica, frutto di una frammentazione di siparietti e situazioni che non volevano avere una continuità. Qui, invece, il baricentro drammaturgico e tutti i perché che lo sorreggono hanno delle fondamenta a vista, che rendono l’architettura del plot, la storia e i personaggi che la animano, di facile lettura, nonostante lo spessore, la caratura e le stratificazioni presenti nella sceneggiatura, che vanno a braccetto con una serie di futili digressioni.
L’unità spazio-temporale e la linearità cronologica del racconto ne rendono più scorrevole e piacevole la visione. Come ne Le conseguenze dell’amore, ci ritroviamo nuovamente catapultati in un albergo nel bel mezzo della Svizzera che, a differenza di quello che ospitava l’esilio del contabile della mafia Titta Di Girolamo, non è una “prigione” asettica e grigia fatta di vetro e cemento, bensì un elegante resort ai piedi delle Alpi, perso nella natura incontaminata, rigogliosa e assorta che lo fagocita. Tra le sue mura e i giardini si vanno a rifugiare Fred e Mick, due amici di vecchia data alla soglia degli ottant’anni per trascorrere una rilassante vacanza primaverile. Il primo è un compositore e direttore d’orchestra in pensione, mentre il secondo un regista ancora in attività. Sanno che il loro futuro si va velocemente esaurendo e decidono di affrontarlo insieme. Guardano con curiosità e tenerezza alla vita confusa dei propri figli, all’entusiasmo dei giovani collaboratori di Mick, agli altri ospiti dell’albergo, a quanti sembrano poter disporre di un tempo che a loro non è dato. E mentre Mick si affanna nel tentativo di concludere la sceneggiatura di quello che pensa sarà il suo ultimo e più significativo film, Fred, che da tempo ha rinunciato alla musica, non intende assolutamente tornare sui propri passi. Ma c’è chi vuole a tutti i costi vederlo dirigere ancora una volta le sue composizioni.
Sinossi alla mano è semplice intuire la volontà di Sorrentino, qui orfano in fase di scrittura dell’apporto del sodale Contarello, di proseguire il suo percorso nei labirintici meandri dell’esistenza umana, ma questa volta non si perde in altezzosi e megalomani astratti voli pindarici, piuttosto punta diritto sulle emozioni e i sentimenti che scaturiscono dal passare inesorabile del tempo, da una memoria che si va perdendo, dalle relazioni affettive e generazionali innescate tra i soggetti chiamati in causa. Per farlo passa attraverso temi a lui cari, interrogativi che lo tormentano artisticamente e relative risposte, trattandoli non come “corpi estranei” alla narrazione, ma come parti integranti della stessa. Le figure che si alternano sulla scena sono i “portatori sani” delle suddette componenti ed è su e intorno al loro punto di vista che prende forma il plot. Onirico e reale non si sovrappongono come avviene nell’opera precedente, con il primo che irrompe bruscamente nel secondo sotto forma di incubi e sogni. Ne viene fuori una storia semplice fatta di personaggi altrettanto semplici che parlano delle rispettive paure e fragilità, che provano a spiare il futuro ma sono costretti a fare i conti con il proprio passato e con lo spettro della morte. Questo fa di Youth un’opera semplice che non ha bisogno di lunghi giri di parole per generare dei messaggi in grado di arrivare a tutti con la stessa incisività e chiarezza. Di tanto in tanto smarrisce la strada, ma poi riesce sempre a ritrovarla.
Gli strumenti per scagliarli sulla platea sono gli stessi che Sorrentino ha usato sin dagli albori del suo cinema, un cinema personale e stilisticamente riconoscibile, al quale bastano pochissimi fotogrammi per essere immediatamente identificato. In Youth arriva persino ad autocitarsi, riproponendo temi e stilemi che sono diventati un vero e proprio marchio di fabbrica. Si assiste così alla sua inconfondibile e ammaliante combinazione di messa in scena e messa in quadro, che scaturisce dalle linee disegnate chirurgicamente nello spazio dai bellissimi movimenti di macchina, dalla costruzione pittorica dell’immagine e da una punteggiatura visiva che per potenza ha pochissimi rivali. Ma questa non è una novità.
Voto: 7 e ½
Francesco Del Grosso